“Credo nella vita, nell’amore e nel cinema e resto qui su questo palco, con voi, pieno di vita, pieno di amore e pieno di cinema”. Così Guillermo Del Toro ha accolto il suo Leone d’Oro. Il regista messicano ha vinto grazie al poetico, romantico e sognante The Shape of Water. Un film che si può solo amare, che ti avvolge nella sua atmosfera fantasy e non ti lascia più. Un omaggio al cinema, un omaggio ai sentimenti. “Ho 52 anni, peso 110 chili e ho fatto 10 film – ha proseguito l’autore – c’è un momento nella propria vita e nella propria carriera in cui si cerca di fare qualcosa di diverso. Questo è stato il mio momento”. Del Toro ha poi concluso: “E’ il primo Leone d’Oro a un messicano e quindi lo dedico a tutti i registi latinoamericani, e li invito a crederci sempre, anche quando riceveranno dei no”.
Annette Bening e la sua giuria hanno fatto una scelta coraggiosa, premiando un’opera tanto autoriale quanto estremamente commerciale e popolare, di puro stampo hollywoodiano, che solitamente non riesce a ritagliarsi spazio in un palmares festivaliero. Se però il Leone d’Oro a Del Toro è assolutamente meritato, non si capisce perché la giuria abbia premiato il bellissimo Three Billboards Outside Ebbing, Missouri solo con il premio alla sceneggiatura e soprattutto che abbia totalmente escluso dai vincitori gli altri tre colpi di fulmine di questa Mostra, e cioè Mektoub, My Love: Canto Uno di Abdellatif Kechiche, EX LIBRIS – The New York Public Library di Frederick Wiseman e First Reformed di Paul Schrader. Per tutti erano questi i titoli migliori della competizione: strano non averli visti salire sul palco della Sala Grande ieri sera.
Infatti, il Gran Premio della Giuria è andato all’israeliano Samuel Maoz, già Leone d’oro con Lebanon nel 2009, per Foxtrot (un riconoscimento molto a sorpresa), il Leone d’argento per la regia a Xavier Legrande per Jusqu’à la garde (che ha ottenuto anche il premio opera prima Luigi De Laurentiis) e la Coppa Volpi per l’interpretazione maschile a Kamel El Basha per The Insult, un dramma giudiziario, passato quasi inosservato durante i giorni della Mostra. “Non me l’aspettavo”, ha dichiarato l’attore quando ha ricevuto il premio e, per quanto la sua interpretazione sia meritevole di menzione, non ce l’aspettavamo neanche noi. Il Premio della Giuria se l’è aggiudicato Sweet Country di Warwick Thornton, mentre il premio Mastroianni all’attore/attrice emergente è andato, giustamente – e non è che ci fossero altri contendenti meritevoli –, a Charlie Plummer per Lean on Pete, rivelazione di cui sentiremo parlare in futuro.
La Coppa Volpi femminile è andata invece alla grande Charlotte Rampling (meritatissima, nonostante la concorrenza della straordinaria Frances McDormand) per Hannah di Andrea Pallaoro, unico film italiano a rientrare nel palmares finale. “Sono veramente emozionata” – ha detto emozionata l’attrice – per me è un onore, un valore aggiunto ricevere questo premio in Italia, paese che è per me vera fonte di ispirazione. Ho lavorato con tantissimi maestri italiani e se sono quello che sono lo devo soprattutto all’Italia e ai suoi artisti. Ora ricevo questo premio grazie ad un film diretto da un regista della nuova generazione”. Nuova generazione italiana che però, per il resto, non può dirsi affatto contenta del verdetto della giuria. Si sperava nei Manetti Bros, ma Bening & co. non hanno avuto, in questo caso, il coraggio necessario per premiare i fratelli romani.
A tenere alta la bandiera tricolore ci ha pensato Susanna Nicchiarelli, il cui Nico 1988 ha vinto come miglior film nella sezione Orizzonti. “Ringrazio Alberto Barbera di aver scelto il mio film – ha esordito la regista – un film complicato, girato per mezza Europa, con un cast internazionale, con tante musiche. E ringrazio chi ne ha reso possibile la realizzazione”. Chissà, se il film fosse stato selezionato nella competizione ufficiale, forse avrebbe avuto qualche chance. Ma sono solo ipotesi, suggestioni, probabilmente rimpianti.
di Antonio Valerio Spera per DailyMood.it
Photo Credits: ©La Biennale di Venezia – foto ASAC
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