“Che cos’è? Shakespeare in estiva?”. Con una frase così, nel primo film degli Avengers, Tony Stark alias Iron Man accoglieva Thor nel mondo dei supereroi. Non è solo una battuta. Il fatto è che un personaggio come Thor, tolto dal suo mondo e spostato in un altro, sia pur un universo parallelo in cui esistono i supereroi, rischia di essere fuori luogo, di sembrare un po’ ridicolo. Da quando è entrato nel Marvel Cinematic Universe, infatti, Thor è da sempre un personaggio in cerca di autore. Thor: Ragnarok, il terzo film stand alone del Dio del Tuono, in questo senso segna un cambio di rotta. Al timone c’è il regista neozelandese Taika Waititi, quattro film all’attivo – tutte commedie – e ancora nessun blockbuster. La sua missione è rendere divertente Thor, il più serioso, teatrale, shakespeariano dei supereroi Marvel. Il tutto mentre su Asgard e il nostro eroe incombe la più tremenda delle nemesi. Odino è sull’orlo della morte ed in esilio sulla Terra, mentre dalla prigionia ritorna Hela, sua primogenita e sorella di Thor e Loki. È la Dea della Morte, è invincibile e vuole impadronirsi del regno, e anche di tutti gli altri pianeti. Tutto questo mentre Thor, senza il suo martello, frantumato da Hela, si ritrova su un pianeta sconosciuto, prigioniero, e fatto combattere come un gladiatore in un’arena. Come avversario si ritrova un vecchio amico: Hulk. Ecco perché i due non erano tra gli Avengers in Captain America: Civil War.
Quando Waitiki ha presentato alla Marvel la propria idea per il trattamento di Thor: Ragnarok, ha mostrato scene di film come Shakespeare a colazione, un buddy movie, e di Grosso guaio a Chinatown. L’idea è insomma quella di riposizionare Chris Hemsworth e il suo Thor, renderlo una “simpatica canaglia”, ammiccante, ironico, spericolato. A volte anche un po’ impiastro. Come il Kurt Russell del film di cui sopra. Ma anche come l’Harrison Ford di Han Solo (Star Wars) e Indiana Jones. Costruito il personaggio, Waitiki costruisce Thor: Ragnarokcome un buddy movie, un continuo scambio di battute, cazzotti e frecciate tra due personaggi diversi e costretti a stare insieme. Nella prima parte del film sono Thor e Loki (Tom Hiddleston, anche lui ripulito dalla patina altezzosa e aulica dei film precedenti) e nella seconda – ed è il pezzo forte del film – sono Thor e Hulk. I duetti tra Hemsworth e Mark Ruffalo, spesso improvvisati, sono irresistibili.
L’altro aspetto che piace di questo film, ed è un segno dei tempi, è il ruolo delle donne. Tolto un personaggio come la Vedova Nera di Scarlett Johansson, nei vari film stand alone dei supereroi Marvel i personaggi femminili sono stati costruiti spesso in relazione a quelli maschili (vedi la Pepper Potts di Iron Man o proprio la Jane Foster di Thor, assente in questo terzo film e liquidata con una battuta). In Thor: Ragnarok le donne sono artefici del loro destino, donne d’azione, decise e forti, senza rinunciare alla loro bellezza. La Hela di Cate Blanchett sembra una stella del dark e della new wave: altera, elegante, sinuosa, pericolosissima, colora il film (ovviamente di nero) a ogni inquadratura. Valchiria è Tessa Thompson (vista in Creed e in Westworld), ed è una vera sorpresa: corpo slanciato, atletico, felino, e un volto carico di espressività che passa dall’apatico all’ironico fino all’intensità del finale. Valchiria, nel fumetto, era bionda: averne fatto un personaggio di colore è un bel segnale nell’America di oggi.
Ma che cos’è, quindi, Thor: Ragnarok? Per metà del film, tutta quella nel pianeta del Gran Maestro (un Grande Fratello pop e godereccio, interpretato da Jeff Goldblum) è un film che riprende nei toni un certo cinema d’azione spensierato degli anni Ottanta e, in alcune sequenze, costellate di personaggi singolari, le atmosfere del primo Star Wars (cioè Una nuova speranza), ma con slanci kitsch che sembrano arrivare a Flash Gordon. L’altra metà, obbligata, è quella di Asgard che, se nei toni cerca di essere un po’meno shakespeariana, nelle immagini sembra riprendere tanto, forse troppo, da Il Signore degli Anelli. Insomma, è come se due delle saghe più importanti del cinema fantasy dialogassero fra loro, ma in un’altra saga. I due toni del film stentano ad amalgamarsi. E, se il gioco del divertimento funziona molte volte, molte altre sembra forzato.
Thor: Ragnarok ci fa capire però due cose. La prima. Al cinema oggi c’è una generazione di quarantenni che è cresciuta con i film degli anni Ottanta (nel film spunta anche una t-shirt di Rio dei Duran Duran…), e non ha paura di dichiararlo né di portare in un altro cinema quel feeling (un esempio su tutti, il Jon Watts di Spider-Man: Homecoming, che non ha fatto mistero di essersi ispirato al John Hughes di Breakfast Club). Per loro i supereroi sono i loro giocattoli di quando erano bambini, e continuano a giocarci. E, come fanno i bambini, li spostano a piacimento nei mondi che vogliono. La seconda. Thor: Ragnarok, e la visione di Taika Waititi, sembrano suggerire che forse l’unico modo per raccontare eroi in calzamaglia, o in corazza e mantello, sia quello di non prenderli – e non prendersi – sul serio. Fate così anche voi. Andate a vederlo. Ma non prendetelo sul serio.