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Black Mirror 4. Il nostro futuro. Ai confini con la realtà

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Preparatevi per un viaggio Ai confini della realtà. Paragone abusato, certo. Ma Black Mirror, la serie antologica creata da Charlie Brooker, disponibile ora su Netflix, è davvero l’erede del famoso telefilm degli anni Sessanta. In comune hanno l’unicità di ciascun episodio, e con essa la sorpresa, lo stupore e l’attesa per lo svelamento del mistero che accompagnano la visione di ogni racconto. E, ovviamente, il carattere spesso fantascientifico di ogni singola storia. Ma, volendo essere più precisi, il sottotitolo di Black Mirror (il titolo fa riferimento allo schermo nero, quello nei nostri pc e dei nostri smartphone, ormai le nostre interfacce con gli altri e con il mondo) potrebbe essere ai confini “con” la realtà. Perché le storie sono ambientate in futuro che è vicinissimo. E proprio questo le rende molto verosimili, addirittura quasi plausibili. Il futuro di Black Mirror non è quello di un Blade Runner, o di un A.I., è semplicemente il domani, anzi l’oggi, solo tra qualche minuto. Al di là del quid tecnologico che è al centro della storia, il futuro si discosta dal presente per qualche dettaglio – porte digitali che ci fanno interagire con i visitatori, camion che si guidano da soli -.ma il mondo in cui siamo è a tutti gli effetti il nostro.

Ma che cosa ci racconta allora Black Mirror 4? Solitudini digitali e alienazioni virtuali, ossessione per il controllo, archiviazione dei ricordi, amore e sesso ai tempi del digitale, sistemi di sorveglianza spietati, trasferimento di emozioni, sensazioni, coscienze da un corpo a un altro. USS Callister, l’episodio 1, parte in quarta con una perfetta ricostruzione della fantascienza vintage di Star Trek, con un grottesco emulo del Capitano Kirk e un improbabile equipaggio. Semplice parodia? Non proprio, siamo sempre in Black Mirror: verremo trasportati in un vortice tra vita reale e virtuale, in un mondo dove il digitale può essere la rivalsa sulla vita reale, ma anche lo scollamento della stessa. In Arkangel, l’episiodio 2 (diretto da Jodie Foster), seguiamo le vicende di una madre piuttosto ansiosa che installa un microchip nella testa della figlia di tre anni: in questo modo, attraverso un tablet, può controllare la sua posizione, le funzioni vitali, ma anche vedere in soggettiva, come se avesse i suoi occhi, quello che sta facendo, o porre dei filtri a quello che vede lei. Il rischio è di privarla delle emozioni, ma anche di vedere alcune di quelle cose che, come sappiamo, un genitore è meglio non veda mai. Soprattutto quando arriva l’adolescenza. Crocodile, terza storia dell’antologia, ha al centro uno di quei fattacci che nella vita si farebbe di tutto per dimenticare: il punto è che non c’è solo la coscienza a ricordarcelo, ma anche un sistema che rende la nostra memoria accessibile a tutti.

Ma tutti, già dall’annuncio della Stagione 4 di Black Mirror, ci siamo subito chiesti: ci sarà un nuovo San Junipero? Una nuova storia, cioè, che come l’episodio della Stagione 3, racchiuda romanticismo, atmosfere sognanti (come gli anni Ottanta riescono immediatamente ad evocare), andamento pop e anelito alla vita eterna, con un retrogusto di ottimismo. Se un nuovo San Junipero non può esserci, Hang The Dj ci si avvicina molto: racconta la ricerca dell’anima gemella da parte di un ragazzo e una ragazza, affascinanti, ironici e impacciati, e soprattutto intimoriti dal “Sistema” che, nel mondo dove si trovano, regola le relazioni di coppia. Un coach automatizzato accoppia uomini e donne e li fa vivere insieme per un tempo già determinato – possono essere 12 ore, ma anche 5 anni – per poi incamerare dati e arrivare all’accoppiamento tra le due persone più compatibili. Romantico, sexy, misterioso e intrigante, Hang The Dj ha una soluzione semplice ma curiosa, e sì (proprio come San Junipero, dove c’era Girlfriend In A Coma) si sentono gli Smiths: la frase del titolo è tratta dalla famosissima Panic, che recita “bruciate le discoteche, impiccate quei benedetti d.j. perché la musica che mettono in continuazione non mi dice nulla della mia vita”. Anche qui, credeteci, avrà un senso.

Ma ritroviamo qualcosa di San Junipero anche in Black Museum, l’ultimo dei sei episodi di Black Mirror. Se l’atmosfera è agli antipodi – opprimente, claustrofobica, disturbante – si parla sempre di trasferimento delle coscienze da un soggetto a un altro, di vita che continua al di là del nostro corpo: un museo degli orrori è l’occasione per raccontare tre storie di questo tipo, con un finale, ancora una volta, a sorpresa. È struggente anche l’ultimo fotogramma di Metalhead, l’episodio V, vero e proprio film d’azione in bianco e nero, una vera e propria caccia a un gruppo di ladri da parte di un gruppo di sentinelle molto particolari, un racconto teso e lineare che punta tutto sulla suspense.

È l’episodio più breve della quarta stagione, 40 minuti, contro l’ora e 15 del primo, USS Callister. Le due storie, opposte anche nella forma (il colore ipersaturo e le immagini sgranate nella perfetta ricostruzione dei primi Star Trek contro un bianco e nero netto e spietato), ci mostrano come in Black Mirror ci sia la più ampia libertà di svolgimento. Conta l’unità tematica della serie, la tecnologia come opportunità o rischio. Le sei opere sono dei veri e propri minifilm, ma stanno a un lungometraggio cinematografico come una novella, o short story, sta a un romanzo. Della novella le opere di Black Mirror hanno la concisione, il senso di attesa e soprattutto, aspetto immancabile, l’epifania, cioè lo svelamento finale, che dà il senso alla nostra attesa e la risposta alle nostre domande.

Se Black Mirror è un successo tale che, in sceneggiatura, si permette anche di ironizzare su se stesso (nell’episodio 1 si fa riferimento a una serie in onda su Netflix, mentre nell’episodio 6 si parla di una clinica che di nome fa, guarda un po’, San Juniper), ogni minifilm è chiaramente un gioco di rimandi. Se USS Callister è un dichiarato omaggio a Star Trek, ci ha fatto anche pensare a Nirvana, per i personaggi con una coscienza, e a eXistenZ, per la vita virtuale che si sovrappone e confonde a quella reale. Arkangel ci riporta a 1984 di Orwell: il Grande Fratello può essere in ognuno di noi, basta dotarci di chip e tablet. Metalhead ci mostra un nemico piccolo ma degno di Terminator. Ma il film che ci è tornato più in mente guardando Black Mirror è Strange Days: lo squid, quel sistema operativo misto a droga che permetteva di registrare e rivivere all’infinito ogni tipo di sensazione, propria o altrui (in fondo un altro modo di sfidare il tempo, e quindi essere un po’ immortali), ritorna, in parte, in molti degli artifici tecnologici di queste storie. Le soggettive di Arkangel, live a differenza di quelle registrate di Strange Days, sono quasi le stesse. I ricordi che in Crocodile possono essere immagazzinati, salvati e riletti da altri sono molto vicini all’effetto dello squid. E quel casco che, in Black Museum, posto sulla corteccia cerebrale dei pazienti permette di viverne in tempo reale i dolori al medico che li cura, è il nipote del casco usato dal Lenny Nero di Ralph Fiennes. Sì, tra i padri di Black Mirror (che sono sicuramente molti) ci sono sicuramente anche Katrhyn Bigelow e James Cameron.

Ma Black Mirror è originale perché, per mostrarci la sua visione del futuro, si discosta delle metropoli caotiche e fatiscenti di un Terminator o di uno Strange Days, optando per luoghi vuoti, isolati, rarefatti. La periferia industriale di Arkangel, i ghiacci di Crocodile, l’alienante e vuoto villaggio vacanze di Hang The Dj, le lande brulle di Metalhead, la stazione di servizio abbandonata e il museo vuoto di Black Museum. USS Callister fa ancora una volta storia a sé. Ma pensate a come possa essere solitario e disperato lo spazio per l’eternità…

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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La legge di Lidia Poët 2: Matilda De Angelis, eroina di ieri e di oggi. Su Netflix

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Il suo nome è Poët, Lidia Poët. Si chiama La legge di Lidia Poët la serie dedicata a questo personaggio che arriva su Netflix dal 30 ottobre 2024, e che è stata presentata ad Alice nella città, la sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma. Ma ci piace introdurla così perché Lidia, la prima donna in Italia ad entrare nell’Ordine degli Avvocati, nella finzione creata da Matteo Rovere, diventa un personaggio da storia crime, un’investigatrice in grado di risolvere gli enigmi più complicati. La seconda stagione de La legge di Lidia Poët è attesissima: la serie, vincitrice con la prima stagione ai Nastri d’Argento Grandi Serie 2023 del premio Miglior Serie ‘Crime’, è anche la serie italiana Netflix più vista nel mondo. È prodotta da Matteo e Groenlandia, società del Gruppo Banijay, e creata da Guido Iuculano e Davide Orsini. Alla regia ci sono lo stesso Rovere, Letizia Lamartire e Pippo Mezzapesa.

A Lidia non è permesso di fare l’avvocato per una legge scritta dagli uomini. Perciò questa volta punta ancora più in alto, vuole cambiare la legge. Mentre continua a collaborare con il fratello Enrico, affrontando nuovi casi e battendosi per i diritti delle donne, vuole convincerlo a candidarsi in Parlamento per far sì che la sua legge trovi finalmente voce. Lidia ha chiuso completamente con l’amore, tanto più con Jacopo, responsabile di aver venduto la villa di famiglia e in rotta di collisione con tutti i Poët. Ma Jacopo e Lidia sono costretti a rivedersi per condividere, loro malgrado, un’indagine segreta che li riguarda da vicino, riscoprendo la complicità e il divertimento che li lega da sempre.

Quella che ha avuto Matteo Rovere è stata un’ottima idea: prendere un personaggio storico e non farne un biopic ma creare un prodotto ben preciso, che rispondesse a un target e un genere molto richiesto. Il modello della serie è Enola Holmes, l’eroina dei film con Millie Bobby Brown, una giovane investigatrice, una giovane donna in un ruolo che è sempre stato appannaggio degli uomini. In quel caso l’idea vincente era stata che Sherlock Holmes avesse una sorella e che fosse anche lei investigatrice. Qui che un personaggio storico, oltre alle capacità giuridiche, potesse avere anche quelle deduttive. E allora ecco il primo avvocato donna in Italia diventare anche una detective. Sia Enola Holmes che Lidia Poët hanno in comune la deduzione, raro dono che nel primo caso verrebbe dai geni familiari, nel secondo da un’evoluzione dei suoi studi di legge. In entrambi i casi, l’idea si è rivelata vincente.

Lidia Poët è un crime, un procedural, e come tale ha una trama verticale, un caso che viene risolto nel corso di un episodio (a tratti con momenti da CSI). Ha anche una trama orizzontale, ed è questa la parte più interessante. La lotta di Lidia per entrare all’Ordine degli Avvocati si evolve, e diventa qualcos’altro: Lidia si batte per diritti più ampi, come il diritto di voto alle donne, il suffragio universale, e la partecipazione delle donne alla vita politica. Come si può immaginare sarà osteggiata, non sarà capita. Ma lei andrà avanti, con la sua ironia, con quel suo sorriso arcaico. A proposito di Storia, gli sceneggiatori si divertono a intrecciarla con le vicende di Lidia: nel terzo episodio, ad esempio, la vediamo confrontarsi con Cesare Lombroso, il famoso antropologo considerato il padre della moderna criminologia.

La forma visiva de La legge di Lidia Poët è un ibrido tra un classico period drama e una confezione pop. Gli sfondi e gli ambienti sono ricostruiti piuttosto fedelmente, e la loro immagine ha spesso la grana delle cartoline d’epoca. Ma davanti a quegli sfondi ci sono le figure in primo piano. I loro abiti sono sì d’epoca, ma hanno un che di pop, soprattutto nei colori. Sono soprattutto i costumi di Lidia, a spiccare, a portare colore in un mondo di uomini più grigio. Guardate i viola, i rossi, i blu dei vestiti che indossa Matilda De Angelis. È un chiaro messaggio: in un mondo uniformato sono le donne, come Lidia, a portare la novità.

I costumi sono chiaramente reinterpretati secondo i gusti di oggi, ed è uno dei piacevoli anacronismi che spezzano il ritmo della serie. Un altro è dato dalle musiche, che sono extradiegetiche, per cui più libere, ma comunque sono contemporanee: dalla musica elettronica di Banks (Beggin For Thread) al punk elettronico di Riival (Misfit, la sigla finale di ogni episodio). È musica che astrae Lidia dal suo tempo e la porta al nostro, rendendola un’eroina contemporanea. E raccontandoci che le lotte di Lidia sono ancora attuali, e da combattere c’è ancora tanto.

Tutto è ammantato da una fotografia incantata, che rende tutto sospeso. I colori di Matilda De Angelis, gli occhi blu e l’incarnato bianco, che a tratti diventa dorato, sono enfatizzati: Lidia sembra uscita da un dipinto d’altri tempi, come da una rivista di moda di oggi. Lidia Poët è ovunque, nel passato e anche nel presente. E anche negli anni Quaranta, perché è da lì, dal cinema della Guerra dei Sessi, in cui i protagonisti si detestavano e si amavano, che viene tutta la linea narrativa con Jacopo, un convincente Eduardo Scarpetta. Tra lui e Matilda De Angelis la chimica è perfetta. E questo è un altro ingrediente di una storia vincente.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Citadel: Diana. Matilda De Angelis è un’eroina da spy-story in un futuro oscuro. Su Prime Video

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C’è un’immagine che campeggia sugli edifici di Manticore, l’agenzia rivale di Citadel, al centro di Citadel: Diana, la nuova serie tv in streaming su Prime Video dal 10 ottobre. È la testa di un uomo che ha due facce, che ricorda molto l’icona di Giano Bifronte. Giano era una divinità romana che era raffigurata con due volti: uno guardava al passato e uno al futuro. È il perfetto simbolo di Citadel: Diana, una storia che è ambientata in un futuro prossimo venturo – un oscuro 2030 – ma allo stesso tempo torna indietro nel passato, per viaggiare dentro i fantasmi e le motivazioni dei personaggi, e legarsi in qualche modo alla serie da cui è partito tutto, la produzione americana Citadel.

Milano, 2030: otto anni prima l’agenzia indipendente di spionaggio Citadel è stata distrutta da una potente organizzazione rivale, Manticore. Da allora, Diana Cavalieri (Matilda De Angelis), spia di Citadel sotto copertura, è rimasta sola, intrappolata tra le linee nemiche come infiltrata in Manticore. Quando finalmente le si presenta l’occasione di uscirne e sparire per sempre, l’unico modo per farlo è fidarsi del più inaspettato degli alleati, Edo Zani (Lorenzo Cervasio), l’erede di Manticore Italia e figlio del capo dell’organizzazione, Ettore Zani (Maurizio Lombardi), in lotta per la supremazia contro le altre famiglie europee.

Citadel: Diana è una serie vincente già solo per l’idea che è alla base, un caso di studio. Nasce infatti da una serie principale, Citadel, prodotta e girata in America, e nata per essere a sua volta la madre di altre storie, da girare in altri Paesi (a novembre arriverà Citadel: Honey Bunny, girata in India). Citadel così ha dato vita a nuove serie che non sono dei sequel e non possono essere tecnicamente definiti degli spin-off. Sono storie che vivono nel mondo di Citadel, ma a loro volta vivono di vita propria, respirano la Storia, il clima, le influenze dei Paesi in cui sono nate. Nell’adattamento italiano, senza che diventino preponderanti rispetto alla vicenda principale, appaiono le mafie, le stragi di Stato irrisolte, una deriva verso l’autoritarismo che a volte nella Storia il nostro Paese ha preso.

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C’è dunque l’Italia, con la sua Storia, le sue peculiarità, la sua personalità in questa serie originale che vive nel mondo di Citadel, ma si discosta dalla serie madre per trovare una sua via. È un’Italia che non è mai scontata, non è mai una cartolina, mai un cliché. Al centro c’è Milano, una città tutto sommato poco frequentata dal cinema nelle sue potenzialità, una Milano città europea, internazionale, enigmatica. C’è la sua architettura razionalista, e un mood retrofuturistico che connota tutta la serie, e ci fa vedere la città come non l’abbiamo mai vista. C’è anche la Sicilia, e anche questa è completamente inedita e lontana dagli stereotipi: è l’occasione per girare una scena spettacolare ambientata nel Cretto di Gibellina in Sicilia, una gigantesca opera d’arte ambientale di Alberto Burri.

Il ruolo delle location è centrale in Citadel: Diana. Non sono mai semplici sfondi, ambientazioni, ma hanno un ruolo ben preciso nella serie. Sono spesso luoghi molto grandi, imponenti, minacciosi – che i totali del regista Arnaldo Catinari valorizzano appieno – che fanno sentire piccolo l’uomo che sta al centro, e rendono l’idea del suo ruolo in questa storia: quello di pedina in grado di essere spostata a piacimento lungo la scacchiera della vicenda. È un uomo piccolo, troppo piccolo di fronte al destino che lo attende.

Come nella scienza, in Citadel: Diana si va dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo. Ci sono i totali e i campi lunghi, ma anche i primi piani. Tanti sono sul volto di Diana, interpretata da una convincente Matilda De Angelis, pronti a coglierne la bellezza, l’aura di star ormai internazionale. E a scrutare l’enigma di un volto che, per doveri di missione, deve rimanere freddo e imperscrutabile, ma tale non è. Matilda De Angelis è in scena con un inedito caschetto a due lunghezze: i capelli sono più corti da un lato e più lunghi dall’altro, simbolo della Diana del passato che incontra la Diana del presente e del futuro. Sì, ancora una volta ecco Giano Bifronte.

Ma Giano Bifronte è il simbolo di Citadel non solo per il rapporto tra passato e futuro, ma anche perché, come vuole il mondo creato dai Fratelli Russo, ognuno ha due facce, due identità, due vite. Ognuno fa un doppio, o forse triplo, gioco. Non c’è alcuna certezza, tutto è il contrario di tutto. Citadel: Diana, prodotta da Cattleya, è riuscita a creare un mondo (con la scrittura di Alessandro Fabbri, head writer, e Ilaria Bernardini, Gianluca Bernardini, Laura Colella e Giordana Mari) dove abbiamo un continuo senso di accerchiamento, di terra che frana sotto i nostri piedi, di enorme insicurezza. La serie italiana è probabilmente più riuscita della “madre” americana. Merito della qualità produttiva, per la potenza di certe sequenze e inquadrature, di attori come Maurizio Lombardi, Filippo Nigro e la rivelazione Lorenzo Cervasio.

Ma è merito soprattutto della scrittura, e di quelle backstory che riescono a svelarci le motivazioni, il motore che muove le azioni dei personaggi. La forza di Citadel: Diana è proprio questa. Insieme al fatto di aver intercettato un senso di disagio per il mondo che abbiamo attorno, con guerre che accadono molto vicino a noi e che ci fanno temere anche per le nostre vite. Quel Duomo di Milano che crolla sotto un attentato, lasciando solo rovine e macerie, è un’immagine di quelle che restano dentro e che fanno stare male. Il senso di quell’immagine ce lo ha spiegato l’head writer Alessandro Fabbri. “Andava a dirci in modo preoccupante, inquietante: anche noi siamo esposti, non viviamo in un posto sicuro; ecco cosa potrebbe accadere qui, nella nostra terra, in un futuro non troppo lontano, se qualcosa dovesse andare storto”.

di Maurizio Ermisino

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Hanno Ucciso l’Uomo Ragno – La leggendaria storia degli 883: Su Sky e NOW ecco Max e Mauro, eroi degli anni Novanta

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Sheena is a punk rocker, cantavano i Ramones. Ma anche Max Pezzali è stato un punk rocker. È nato tutto da lì. Dai Ramones, dai Sex Pistols, dai Clash e i Dead Kennedys. “Ma perché nessuno ascolta punk a Pavia?’” si chiede a un certo punto Max. Essere un punk a Pavia doveva essere molto duro nel 1989. Ma da lì, da quell’attitudine punk, è nata una storia che ha cambiato il modo di fare musica pop in Italia, e che dura ancora oggi: quella degli 883. Ce la racconta Hanno Ucciso l’Uomo Ragno – La leggendaria storia degli 883, la serie Sky Original di Sydney Sibilia, prodotta da Sky Studios e Groenlandia, in arrivo su Sky e NOW in esclusiva dall’11 ottobre. Una serie che ci riguarda tutti. Chi ama la musica degli 883, ma anche chi è stato adolescente in una città di provincia negli anni Ottanta e Novanta, chi è un adolescente adesso, e ha gli stessi problemi di quelli di allora. E ancora, chi ama le storie degli outsider, le storie di rivalsa. Come Rocky. Sì, perché nel primo film Rocky perde, ma poi riesce a vincere e ci fanno altri 5 film. E così anche Max Pezzali e Mauro Repetto sono passati più volte per la sconfitta. Ma, come sappiamo, l’importante non è cadere. È quanto in fretta ti rialzi.

Siamo nell’estate nel 1989. Max viene bocciato alla fine dell’anno scolastico. I genitori, così, non lo mandano in vacanza, ma lo fanno lavorare nel loro negozio di fiori: tutta l’estate a fare consegne, a fare anche i funerali. Ma è a uno di questi che incontra Silvia Panayiotopoulos, per tutti Silvia Atene, una ragazza che si è trasferita a Pavia e che quella sera non ha nessuno con cui uscire. Max le dice che si intende di musica, che scrive canzoni, e lei gli chiede di scriverne una per lei. Max non ha mai suonato nulla, ma prende una chitarra e inizia a comporre. Alla fine dell’estate, nella nuova scuola in cui lo hanno iscritto i suoi, incontra il suo nuovo compagno di banco. È Mauro Repetto. Quella cassetta con la prima canzone scritta, la tenacia di Mauro nel trovare il suo talento, e qualcuno con cui farlo esplodere, faranno nascere gli 883.

Hanno ucciso l’Uomo Ragno è questo, una serie di fili che si snodano e si riannodano, una serie di coincidenze che si legano l’una a all’altra per dare vita a qualcosa di speciale, un po’ come Il favoloso mondo di Amelie in chiave punk e ambientato a Pavia. In questo far partire le storie da un punto di vista insolito (ogni episodio è un capitolo a sé, con un tema e uno svolgimento, anche se concorre alla storia orizzontale) c’è la mano di Sydney Sibilia, uno per cui le storie fanno dei giri immensi e poi ritornano. Questo modo di raccontare, iniziando da angoli nascosti per arrivare al centro, è una qualità delle grandi serie (senza fare confronti, ma solo come schema narrativo degli episodi, ci vengono in mente Lost e The Crown).

Non sono mai stati punk, gli 883, ma avevano una punk attitude. Che cosa vuol dire? Vuol dire buttarsi. Dire di essere un deejay senza esserlo ancora, dire di essere un cantante senza saper ancora suonare e cantare. Dire di avere un intero album pronto quando ancora non ce l’hai. Vuol dire avere dei piani arditi, temerari. Ma che a volte riescono. Chi ce l’ha fatta è stato sempre qualcuno che ha avuto idee più grandi di lui. E, in quegli anni, Max e Mauro hanno avuto una grande idea. Hanno avuto un grande sogno.

Anche Sydney Sibilia, a suo modo, è punk. Lo è per come racconta gli underdog, gli anarchici, degli ultimi, degli outsider. Per come ama i pirati. I pirati che, da ricercatori precari, creano il loro business fuori dalla legge (Smetto quando voglio). I pirati che creano il loro Stato libero in mare aperto (L’incredibile storia dell’Isola delle Rose). I pirati che creano il loro mondo discografico (Mixed By Erry). E quelli che vogliono entrare nello show business a Pavia. Hanno ucciso l’Uomo Ragno sembra essere il controcampo di Mixed By Erry, o il suo sequel, per come si muove in un universo fatto di cassettine analogiche, negozi di strumenti musicali, stereo e mixer. “A Mauro Repetto mancava sempre quel tanto così” in ogni cosa che faceva. Gli eroi di Sydney Sibilia sono tutti così. Ma ce la fanno lo stesso. Sono personaggi in cui, in una situazione in cui ci sono due scenari possibili, si creano da soli il terzo scenario. Hanno in sé un talento: l’arte di arrangiarsi, di farcela contro ogni pronostico.

Max e Mauro (Elia Nuzzolo e Matteo Oscar Giuggioli, bravissimi e perfetti nei loro ruoli), come li vediamo nella serie, sono proprio così. Sono due personaggi dei fumetti, proprio come L’Uomo Ragno che cantano nella loro canzone più famosa. Come due Willy il coyote, sono quei cartoon che cadono mille volte senza farsi mai male, senza morire mai. Non li butti giù, Max e Mauro. Non ci è riuscita l’indifferenza generale dopo la prima apparizione in tv (a 1 2 3 Jovanotti, quando ancora si chiamavano i Pop e facevano musica rap in inglese). Non ci è riuscito il primo rifiuto di Claudio Cecchetto a pubblicare il loro album, nella sua prima versione, quando ancora mancava qualcosa.

Già, Jovanotti e Claudio Cecchetto. Nella serie sugli 883 ci sono loro, ma appaiono anche altri nomi di quel mondo, come Fiorello e Sandy Marton. O nomi grandi come i Public Enemy e i Metallica. Tutta la storia è vista con lo sguardo stupefatto di un ragazzo di Pavia che incontra il mondo che aveva sempre sognato. Max Pezzali, probabilmente, è così ancora oggi: un ragazzo in grado ancora di stupirsi, un uomo ignaro di essere una popstar e uno dei grandi autori di canzoni della storia recente.

Ma scorrendo questi nomi avrete capito anche che Hanno ucciso l’Uomo Ragno è anche un grosso amarcord, un come eravamo, un viaggio a ritroso negli anni Novanta. Sibilia e il suo staff hanno fatto di tutto per corredare il viaggio con momenti e oggetti iconici. Il walkman, il telefono a gettoni, le macchine fotografiche con la pellicola. E ancora il Festivalbar e il Karaoke, e chi più ne ha più ne metta. È un viaggio dove tutto torna. Guardate la serie (8 episodi) fino in fondo, e seguite quella cassettina con la canzone per Silvia. E sentite cosa ci sarà lì dentro.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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