Mood Face
Daniel Day-Lewis. Entrare in un personaggio, non uscirne più
Maniacale in ogni aspetto del suo lavoro. E anche nella vita? E se la sua vita, in fondo, fosse tutt’uno con il suo lavoro? Daniel Day-Lewis, tre Oscar all’attivo, ha annunciato che Il filo nascosto, il film di Paul Thomas Anderson per cui è candidato, ancora una volta, all’Academy Award, sarebbe stato il suo canto del cigno. Il suo ultimo film. Non è la prima volta che annuncia di voler lasciare il cinema, ma stavolta è sembrato più serio. Forse ne beneficerà la sua salute mentale. È noto come Daniel Day-Lewis entri talmente nei personaggi da non riuscirne più ad uscirne una volta a casa, lontano dal set. Un mese, forse più, di decompressione è quello che gli serve, ha raccontato.
Il suo ingresso in scena ne Il filo nascosto è proprio così: maniacale. Prestate attenzione a come si rade, come si pettina, come si cura, come si veste. È Reynolds Woodcock, un grande sarto nella Londra degli anni Cinquanta, quella che non è ancora swinging’, ma è ancora rigida e formale. Un sarto per cui l’eleganza e la perfezione sono una religione, e che non vuole sentire parlare di mode, o dell’aggettivo “chic”. Il suo Reynolds, a prima vista, è come il Newland Archer de L’età dell’innocenza, elegante e compito, trattenuto. Ma solo in superficie…
Forse non è un caso che Daniel Day-Lewis abbia scelto questo ruolo come il suo “testamento”. In fondo, il lavoro del sarto e quello dell’attore non sono così lontani. Si tratta di cucirsi addosso, su misura, un ruolo che, per funzionare, deve calzare a pennello, come se fosse un abito. Woodcock è a tutti gli effetti un artista. Ha bisogno di lavorare in silenzio, di lasciare tutto al di fuori. Non ha tempo e forze per affrontare una discussione se deve disegnare un abito. Come il suo personaggio, Daniel Day-Lewis ha lasciato spesso fuori, o indietro, la sua vita, sacrificato relazioni (è celebre la rottura con Isabelle Adjani, negli anni Novanta, con cui ebbe un figlio che non volle riconoscere).
Guardate attentamente la meticolosità con cui, un mattino, ordina la colazione. È uno dei rari momenti in cui, ne Il filo nascosto, lo vediamo sorridere. E ci colpisce quella mascella che siamo abituati a vedere serrata, quelle labbra sottili e nervose, che nel “macellaio” di Gangs Of New York schiumavano rabbia, schiudersi per un attimo nel più dolce ed educato dei sorrisi. Sarà un fuoco fatuo, e presto quelle labbra torneranno a chiudersi, a tremare nervose, ora insicure, ora violente. O solamente impegnate, per stringere gli spilli, i suoi ferri del mestiere. I capelli che erano neri e lunghi ne L’ultimo dei Mohicani e Nel nome del padre, oggi sono più corti, grigi ed elegantemente pettinati all’indietro. Il Daniel Day-Lewis de Il filo nascosto è sempre impeccabile, che indossi uno smoking e un papillon a microquadri ton sur ton, o giacche di tweed a quadroni. O anche nella giacca bianca, la sua tenuta da lavoro, indossata su una camicia nera, corredata da un ascot fantasia.
Daniel Day-Lewis, attore di solida estrazione teatrale, figlio di un poeta e un’attrice, attento a selezionare pochi ruoli e molto particolari (meno di venti ruoli in trent’anni di carriera, e solo sei dal 1997 a oggi), è noto per il temperamento particolare, per le sue scelte singolari. Il ritiro delle scene annunciato non è il primo: ha fatto discutere un lungo periodo (tra il 1997 e il 2001) lontano dai set per ritirarsi a Firenze, nella bottega di un calzolaio, per apprenderne l’arte come apprendista.
A proposito di arte, nel mondo di Daniel Day-Lewis questa si allarga a dismisura fino ad invadere la vita. C’è un aneddoto che racconta come l’attore britannico (ha cittadinanza inglese e irlandese) affronti i suoi ruoli. Nel nome del padre lo vede nei panni di Gerry Conlon, accusato ingiustamente per un attentato, attribuito all’IRA, negli anni Settanta. È una storia vera. Le scene più forti sono quelle della detenzione e dell’interrogatorio. L’attore ha voluto dormire in una vera cella, prima di quella scena, e ha chiesto di essere svegliato più volte, a distanza di pochi minuti, con una serie di calci alla porta della cella. In questo modo, dopo una notte insonne e carica di tensione, al momento del ciak l’attore è crollato, è scoppiato in lacrime, distrutto. Signore e signori, questo è Daniel Day-Lewis.
Che vinca (noi ce lo auguriamo) o meno, il suo quarto Oscar, l’uscita di scena di Day-Lewis è un ruolo ambiguo, sfaccettato, ricco di sfumature, di lavoro di sottrazione. Che arriva dopo un altro ruolo mimetico e introspettivo, quello in Lincoln di Steven Spielberg. Ma di Daniel Day-Lewis ricorderemo anche, e soprattutto, i ruoli furibondi, spaventosi. Come quello di Bill il Macellaio, in Gangs Of New York di Scorsese, per il quale – e non poteva essere altrimenti – imparò il mestiere del macellaio e a lanciare coltelli. Anche qui c’è una storia che ci spiega chi è Daniel, entrato ancora una volta in modo totale nel ruolo tanto da rifiutare inizialmente i trattamenti medici proposti quando gli viene diagnosticata una polmonite. Quei trattamenti non sono in linea con il periodo storico in cui il film è ambientato… Daniel Day-Lewis chiude la sua carriera ancora una volta insieme a Paul Thomas Anderson, che gli aveva già regalato un ruolo indimenticabile ne Il petroliere. Il suo Daniel Plainview sembra un gemello separato alla nascita di Bill il Macellaio di Gangs Of New York: i baffi a fare da quinta tenebrosa a una mascella deformata dall’odio, uno sguardo obliquo e tagliente, furioso e carico di rancore, gli occhi carichi d’ira che escono dalle orbite, le vene che sembrano scoppiare. E la postura, storta come quella di una persona piegata dalla fatica, ma anche dal peso dei rimorsi (come quello di aver abbandonato un figlio) e della propria cattiveria. Sono tutti dei grandi ritratti, che, se davvero la carriera di Daniel Day-Lewis dovesse finire qui, rimarranno esposti per sempre nella sua ideale galleria d’arte.
Di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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P. Diddy: Le pesanti accuse al rapper e quelle feste dove c’erano tutti…
Published
2 mesi agoon
1 Ottobre 2024“Every step I take. Every move I make. Every single day, every time I pray. I’ll be missing you”. “Ogni passo io faccia, ogni mossa io compia, ogni singolo giorno, ogni volta che prego, mi mancherai”. Abbiamo conosciuto tutti Sean “Puffy” Combs, alias Puff Daddy, ora noto a tutti come P. Diddy, con quella dolcissima canzone, I’ll Be Missing You, rappata e cantata insieme a Faith Evans sulle note di Every Breath You Take dei Police. Era dedicata a un amico scomparso, il rapper Notorious B.I.G. Quel tributo, quella canzone così dolce, ci aveva fatto conoscere Sean Combs, che la interpretava di bianco vestito, sotto una luce positiva. Le notizie che arrivano dagli Stati Uniti, invece, gettano un’ombra inquietante sul rapper americano. P. Diddy è stato arrestato e si trova in un carcere di Brooklyn, New York, con accuse gravissime. È stato infatti accusato di ripetuti stupri e di traffico sessuale. Il rischio è di 15 anni di galera. O addirittura l’ergastolo. Una brutta storia, bruttissima.
Sean Combs è stato arrestato lo scorso 16 settembre mentre si trovava a Manhattan, al Park Hyatt Hotel. Il giudice non ha disposto neanche il rilascio su cauzione, perché ritiene che possa influenzare e manipolare i testimoni. Non appena il quadro ha cominciato ad essere chiaro, il ritratto che è stato fatto di P. Diddy è qualcosa di impressionante. È stato definito un predatore sessuale, un uomo che rendeva arrendevoli le sue vittime con alcool e droghe e ne abusava. Il suo status di superstar, di uomo famoso e potente, esercitava sulle vittime una sorta di timore reverenziale, che significava il silenzio, che calava su tutto ogni volta. Ma qualcuna di loro, evidentemente, ha tolto i veli su questa vicenda. Da qui è una stata una sorta di valanga. Le pagine di accusa, 14, sono destinate a crescere: finora hanno parlato 11 vittime. Thalia Graves, la più recente, ha parlato di una violenza sessuale avvenuta nel 2001 nel suo studio di registrazione, Daddy’s House. I particolari sono raccapriccianti.
Ma la storia non finisce qui. Non si tratta solo di ripetute violenze. Diddy e il suo staff avrebbero addirittura rapito delle persone, le avrebbero costrette a un “lavoro forzato”, avrebbero corrotto altra gente, provocato incendi. Oltre a girare con armi da fuoco cariche. Una pratica che, in certi ambienti musicali, è purtroppo in voga da tempo. Ma, a quanto pare risultare dalle indagini, questi comportamenti erano in atto da decenni.
Al centro di tutto ci sono le famose feste di P. Diddy, quelle che erano considerate un evento a cui non mancare, quelle a cui essere invitati era un privilegio. Quelle feste a cui tutti volevano partecipare e a cui oggi tutti negano di essere stati. Andavano in scena in grandi hotel, e venivano chiamati Freaks Off: durante questi incontri Combs avrebbe drogato le vittime e le avrebbe costrette a compiere atti sessuali prolungati con altri uomini, riprendendo tutto. Poi sono nati i White Parties, feste organizzate per i ricchi degli Hamptons. La sua idea era fondere lo stile di vita hip-hop, il suo, alle élite della East Coast americana. I ragazzi di Harlem accanto a Leonardo Di Caprio. Tutti sullo stesso piano, tutti vestiti dello stesso colore.
Il punto è proprio questo. In decenni di feste, P. Diddy di sicuro non era da solo. Come ricorda Paris Hilton, a quelle feste c’erano tutti. E allora lo scandalo legato al rapper potrebbe davvero dilagare e deflagrare tra lo star system e il jet set americano. A casa Diddy pare fossero stati visti Justin Bieber, Will Smith, Diana Ross, Owen Wilson. Si parla anche di Ashton Kutcher, Megan Fox, Jay-Z, Beyoncé, Mariah Carey, Usher, Khloe e Kim Kardashian e Jennifer Lopez. Si dice che proprio J-Lo, in passato legata a P. Diddy, possa avere un ruolo importante in questi fatti, o almeno essere molto informata. E che dietro al divorzio con Ben Affleck possa esserci proprio il legame con Combs. Ma l’elenco dei partecipanti alle feste è potenzialmente sterminato. E allora chi ha partecipato a questi atti sessuali? Chi li ha favoriti? Chi, semplicemente, ha osservato, sapeva e non ha detto nulla?
Le feste andavano in scena a New York, Miami, Los Angeles e Saint-Tropez. Spesso avevano la scusa di essere eventi benefici. Spesso avevano dietro grandi brand come sponsor: servivano a lanciare linee di profumi e bevande alcoliche. P. Diddy ora è in prigione, ma pare che l’intero star system stia tremando. Potrebbe arrivare un terremoto. Oppure, come spesso accade, potrebbe anche essere messo tutto a tacere, con Combs come unico capro espiatorio.
di Maurizio Ermisino
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DE ANDRÉ – LA STORIA 25mo anniversario
Published
11 mesi agoon
5 Gennaio 2024By
DailyMood.itLocation: Teatro Carcano – Milano
Data evento: 11 Gennaio 2024
Nell’anniversario della morte di Fabrizio de Andrè, al Tearo CARCANO di Milano, va in scena “De Andrè, la storia”, lo spettacolo-evento. De Andrè, La Storia è un vero e proprio viaggio musicale nell’universo di Fabrizio De André, il grande cantautore italiano scomparso l’11 gennaio del 1999, sempre presente nella memoria e nella cultura musicale italiana, che accompagna intere generazioni. “De André, La Storia”, è lo spettacolo sul cantautore più importante e influente della musica italiana che celebra, a 25 anni esatti dalla scomparsa, la sua opera. Lo spettacolo ha debuttato nel 2020 e, dopo una tournèè nazionale, approda a Milano, al Teatro CARCANO.
“Fabrizio De André è stato uno dei primi a portare la canzone italiana verso la modernità, ha cambiato le regole delle canzoni, ha mescolato la storia e l’intelletto con il canto popolare, il sacro e il profano, la cultura alta e bassa con una libertà di espressione senza pari – dice il direttore Musicale, Massimiliano Salani – poterne raccontare l’epopea musicale ed umana attraverso la sua musica, ma anche attrvaerso immagini e testi credo sia una grande sfida e un grande privilegio”.
Da Creuza de ma, a Non al denaro… da La buona Novella a Le nuvole, da Anime salve a l’Indiano, l’avventura musicale di De Andrè viene attraversata in uno spettacolo emotivo e coinvolgente, arricchito dalle immagini e dalle informazioni che lo rendono un vero e proprio concerto documentario.
Grazie a un grande interprete, una band eccezionale e video esclusivi, questo spettacolo ripercorre quindi quarant’anni di attività artistica di Fabrizio De André, raccontando un’epoca storica, il clima sociale e politico di un periodo, l’atmosfera e il sapore di un mondo e di come un visionario lo abbia attraversato, descrivendo magistralmente noi stessi, oggi.
La sua storia, la nostra storia.
“È una grande emozione poter lavorare e ideare uno spettacolo basato su una figura così imponente del panorama musicale e intellettuale italiano. L’arte e la musica svolgono nella vita delle persone un ruolo fondamentale, che Fabrizio ha saputo coniugare con una rara indipendenza e profondità di pensiero. Oggi De Andrè è più seguito ed amato che mai, le sue canzoni restano attuali, le nuove generazioni le assorbono e rimandano sui social, negli eventi.
Stiamo ricevendo un caloroso riscontro riguardo agli spettacoli che abbiamo in programma.
Abbiamo voluto dedicare questo spettacolo a un musicista e poeta visionario, proseguendo una ricerca che portiamo avanti dal 2003. Questo evento non è solo un modo per ascoltare i brani di Fabrizio ma anche una possibilità di celebrare la sua influenza storica e la sua continua conversazione con il tempo e con la contemporaneità.” afferma il regista e produttore Emiliano Galigani.
Uno spettacolo da non perdere! I biglietti sono acquistabili online (TicketOne).
Lo spettacolo è prodotto da Stage 11: il regista, Emiliano Galigani ha già realizzato, nel 2003 lo spettacolo musicale Circo Faber, con la collaborazione della Fondazione Fabrizio de André, di Dori Ghezzi e dello storico collaboratore di De André, Pepi Morgia.
Voce: Carlo Costa
Synth, minimoog, voce: Massimiliano Salani
Chitarra acustica, nylon, bouzouki, voce: Emmanuele Modestino
Chitarra elettrica, chitarra acustica, berimbeau, guitalele: Giacomo Dell’Immagine
Basso: Luca Santangeli
Flauto: Eanda Lutaj
Batteria: Alessandro Matteucci
Regia: Emiliano Galigani
Video: Domenico Zazzara
Prodotto da: Federica Moretti, Simone Giusti
Per Stage11
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Raffaella Carrà ci ha lasciato. Senza alcun segno di preavviso, in silenzio. La notizia è arrivata come un colpo a ciel sereno, totalmente inattesa. Aveva tenuto nascosta la sua malattia, probabilmente per non intaccherà quel senso di gioia, freschezza, libertà ed eterna giovinezza che la sua figura pubblica portava con sé, agli occhi di tutti, nell’immaginario collettivo, italiano ed internazionale.
E’ soltanto di qualche mese fa, del novembre 2020, l’articolo del Guardian che la incoronava “icona culturale che ha rivoluzionato l’intrattenimento italiano e ha insegnato all’Europa la gioia del sesso”. Parole che descrivono perfettamente ciò che Raffaella ha rappresentato per la società italiana e non solo, il ruolo fondamentale del suo personaggio, che ha saputo rompere tabù, creare e anticipare tendenze, sdoganare pregiudizi, giocare divertita su sessualità e sensualità.
La sua forza era la naturalezza. Quella naturalezza che l’ha spinta ad affrontare con caparbietà e disincanto dei tempi che stentavano a cambiare. Negli anni Sessanta-Settanta appariva, soprattutto agli occhi conservatori e benpensati, come una provocatrice scandalosa. Ma era “semplicemente” una donna che riusciva a spingere il suo sguardo oltre gli schemi sociali dell’epoca, senza paura dei giudizi, senza timore della censura.
Soubrette per eccellenza, nel senso più nobile del termine – non come lo si intende oggi… –, Raffaella Carrà è stata un’artista poliedrica, capace di cantare, ballare, recitare, condurre, stando alla pari con tutti, se non un passo, anzi dieci, avanti. Amata da tutti e da tutte le generazioni che ha toccato con la sua irrefrenabile simpatia e la sua dolce sensualità, negli anni non ha mai smesso di reinventarsi, di sperimentare, di mettersi in gioco.
Pochi lo ricordano, ma ha iniziato come attrice, diplomandosi al Centro Sperimentale di Cinematografia e recitando per tanti registi, da Carlo Lizzani a Mario Mattoli, da Mario Monicelli a Steno, e poi è esplosa in televisione rendendo il suo caschetto biondo, insieme ai suoi vestiti attillati e coloratissimi, un vero simbolo di libertà e sfrontatezza.
Ha lavorato e duettato con i più grandi dello spettacolo italiano, da Corrado ad Alberto Sordi, da Alighiero Noschese a Renato Zero, soltanto per citarne alcuni, e poi ha travalicato i nostri confini, conquistando le vette delle classifiche internazionali con le sue canzoni, diventate ormai immortali. E’ stato il “primo ombelico” del piccolo schermo, scandalizzando l’opinione pubblica, ha fatto innervosire il Vaticano con il suo “Tuca Tuca”, la sua discografia è ancora oggi l’inno per eccellenza dell’amore libero, del divertimento senza freni. “Tanti auguri”, “Ballo ballo”, “Fiesta”, “Rumore” sono soltanto alcuni dei titoli che negli anni sono diventati la colonna sonora dell’appagamento, della felicità, facendo ballare e conquistando il mondo intero.
Una colonna sonora che sicuramente continuerà a cadenzare anche le prossime generazioni, con i suoi ritmi coinvolgenti e i suoi testi semplici ma unici. Esattamente come lei, come la stessa Raffaella, inimitabile icona pop, che con una “carrambata”, una risata, un balletto, è riuscita con tenerezza ed esplosività ad appassionare, divertire, coccolare il suo pubblico, ad entrare nelle nostre case, a farsi considerare una di famiglia. Da tutti. “Pronto, Raffaella?”, ci mancherai…
di Antonio Valerio Spera per DailyMood.it
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