L’ingresso in scena, sui titoli di testa, è l’ingresso di una diva. Partono le tastiere avvolgenti e le ritmiche sensuali di Slave To The Rythm, il più grande successo di Grace Jones. Inizia così Grace Jones: Bloodlight And Bami, il film di Sophie Fiennes che è stato presentato al Torino Film
Festival, e che arriverà nelle nostre sale solo il 30 e 31 gennaio. Grace è sul palco e canta con il volto coperto da un teschio dorato. Poi la vediamo cantare mentre balla l’hula hoop. Il fisico non è più quello nervoso e muscoloso di trent’anni fa, ma è comunque tonico, slanciato, statuario, potente. Alla fine di un concerto la vediamo firmare gli autografi, e uno lo firma su una di quelle foto che l’hanno resa immortale, la copertina dell’album Island Life, in cui sembra una di quelle statue africane scolpite nell’ebano. Anche i ricordi di Sophie Fiennes, che abbiamo intervistato in occasione del festival, iniziano con quell’immagine. “Mio fratello più giovane aveva un suo disco, Island Life. Ricordo che guardavo quella copertina, in quella posizione così strana, e mi dicevo: che tip
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o di donna è questa? Era affascinante” ricorda la regista.
Un’altra immagine di Grace Jones fissata nel nostro immaginario è quella di Bond Girl nel film 007 Bersaglio mobile (A View To A Kill). Era una donna così diversa dalle altre Bond Girl, ma anche da tutte le altre donne che si vedevano nello show business di quegli anni. “Era qualcuno che non cercava di essere una popstar” ci spiega Sophie Fiennes. “Arrivava per fare qualcosa come il teatro, per fare arte. Ogni cosa che faceva aveva una grande costruzione a livello visivo, era teatrale. Quando è entrata nell’arena del pop, con il successo de La vie en rose, veniva dal lavoro di modella. Se la guardiamo possiamo capire la forza della sua differenza. È diversa perché viene da un’anima diversa: non è la ragazza dolce, la popstar della Motown. Non si conforma all’r’n’b, alla musica afroamericana. È un ibrido. E questo la rende sempre fresca, sempre moderna. È molto particolare nella costruzione della sua performance. Siamo tutti unici, ma lei è davvero diversa”.
Grace Jones: Bloodlight And Bami vive di contrasti. Le grandi città della notte e la natura incontaminata, le luci del palco e la chiesa, Parigi e la Giamaica, la band e la famiglia. Alternate alle immagini di un concerto, registrato all’Olympia Theatre di Dublino, seguiamo Grace nel suo paese d’origine, la Giamaica, la vediamo insieme alla famiglia. Grace ha dentro di sé molte anime. “Credo che tutti noi abbiamo la capacità di recitare noi stessi in modo più coraggioso di quello di solito osiamo” riflette Sophie Fiennes. “Ma diversi luoghi fanno venire fuori diverse parti di te. Puoi essere la stessa persona, ma ogni diverso incontro, ogni situazione produce un’altra parte di te. Lei ci mostra che noi possiamo essere molte cose. Da bambini impariamo le regole del gioco. Ma ci sono molti modi in più per giocare, rispetto a quelli per cui ci incoraggiano. Lei è coraggiosa, e prova piacere nell’esplorare. Credo che tutti noi dovremmo farlo un po’ di più”.
“La prima volta che l’ho incontrata sono rimasta colpita da quanto intensa fosse” ricorda la regista. “Abbiamo avuto una conversazione molto profonda sulla Chiesa, e sulla sua esperienza con la chiesa, io ero lì per un film sulla chiesa del fratello. In qualche modo ci siamo connesse. La mia prima impressione è stata quella di qualcuno che è molto generoso”. Una generosità che traspare ogni volta che la vediamo sorridere, un sorriso aperto, contagioso, che non avevamo quasi mai visto negli anni Ottanta, quando i suoi ruoli al cinema, e la sua immagine di popstar la portavano verso espressioni più aggressive. Così come traspare la sua umanità quando, delusa, si sfoga al telefono con Sly & Robbie (i famosi produttori), quando capisce che non possono venire in studio per registrare con lei il disco che sta preparando.
In scena, Grace Jones indossa per ogni canzone un copricapo diverso. Uno sembra quello di una suora futurista. Una bombetta di lustrini diventa una mirrorball in Love Is The Drug, successo dei Roxy Music che ha fatto suo. Oltre ai copricapi indossa solamente un succinto corpetto nero, che lascia scoperto il decollete e le gambe lunghissime. Non ha paura di scoprirsi, anzi è estremamente a suo agio così, con la sua immagine e con il suo corpo. Anche oggi che il mondo dell’immagine è cambiato. “Lei odia i selfie” ci confida Sophie Fiennes. “Per lei oggi sono un incubo: ognuno vuole fare fotografie con lei. E non sono fotografi. La creazione dell’immagine di Grace Jones è nata dalla collaborazione con i grandi fotografi. E oggi ognuno ha uno smartphone e diventa un fotografo. È un vero incubo”. “La madre è appena morta” continua. “E credo che lei sia in un momento di sofferenza ora. Quello che ho cercato di mostrare nel film è come lei ami la vita, ami il mondo visuale, ami essere qui. Sia attaccata al fatto di essere viva. Credo che abbia preso a modello la poesia di Dylan Thomas, Rage Against The Dying Of The Light (Non andare docile in quella buona notte, I vecchi brucino infervorati quando è prossima l’alba; Infuriati, infuriati contro il morente bagliore, nda). Trova piacere nell’esibirsi, ama farlo, e ama la forza di tutto questo. A sessant’anni si è esibita in topless e in body paint a un festival. Questo è essere infuriati contro il morente bagliore”.
Per lei il tempo sembra non essere davvero passato. Sembra non passare mai. “Lei non pensa al tempo” ci racconta Sophie Fiennes. “Una delle grandi risposte che ha dato è: io non vivo nel tempo, vivo nello spazio. È una delle risposte più brillanti che abbia sentito. È vero: ha descritto come ami nuotare in Giamaica, un altro grande luogo per lei. Fluttuare nello spazio: fluttuare nell’acqua con il proprio corpo è essere nello spazio. Ed è dove lei vive”.
Grace Jones potrebbe essere una dea ancestrale. Così come la sua musica, che mescola elettronica, funky e reggae, ha qualcosa di ancestrale, di profondo, di tribale. Al contrario di quello che recita il titolo della sua canzone più famosa, non è lei ad essere schiava del ritmo, ma è il ritmo ad essere suo schiavo. Nata per essere un icona, in realtà non si vuole fermare a un’immagine statica di sé. “Tutti le dicono: sei un’icona” ci svela la regista. “Lei non si identifica nell’essere un’icona. È un po’ imbarazzata quando la gente le dice questo. Il mondo è diventato molto visuale, con internet e quel che ne consegue. Viviamo nel linguaggio dell’immagine tutto il tempo. E le immagini che lei ha creato rimangono davvero fresche, cutting edge (all’avanguardia). È immortale, in un certo senso. La parola icona, nel linguaggio popolare, viene avvicinata agli idoli dello schermo, alle popstar. Le icone contengono poteri magici, contengono l’immortalità. Quello che ho cercato di cogliere nel film è l’attenzione verso l’immagine attiva, l’attiva iconica Grace Jones, nelle sue performance, e non verso un’immagine fissa. E creare una tensione tra l’immagine immortale e la mortale, umana Grace”.