Paul Greengrass è un regista che nella sua carriera ha saputo raccontare efficacemente diversi momenti drammatici della storia recente. Oltre all’ottima action della saga di Jason Bourne, il cineasta irlandese ha infatti prima portato sullo schermo la domenica di sangue del 1972 in Irlanda del Nord con Bloody Sunday (Orso d’Oro a Berlino) e poi i fatti accaduti sul volo United 93 durante l’attentato dell’11 settembre 2001, quando i passeggeri si ribellarono ai dirottatori evitando che l’aereo raggiungesse il suo obiettivo.
Su questa linea si muove anche l’ultimo 22 July, prodotto da Netflix e presentato in concorso a Venezia 75. La data che dà il titolo al film è quella dell’attentato avvenuto in Norvegia nell’estate del 2011, prima con una bomba esplosa nel centro di Oslo, poi con il massacro di giovani sull’isola di Utoya, da parte dell’estremista di destra Anders Breivik.
22 July
Cercando di essere il più possibile fedele agli avvenimenti, il film narra le diverse fasi di quel tragico evento: prima la preparazione, poi l’attentato stesso, e infine la reazione del Paese e tutto il processo al terrorista. Come sempre, Greengrass è un maestro nel creare la tensione, e come nelle precedenti opere raggiunge alti livelli di spettacolarità, rispettando però in pieno il dramma reale portato sullo schermo. La prima parte del film, dedicata all’attentato, funziona benissimo: fa crescere gradualmente la suspense e catapulta letteralmente lo spettatore nel terrore di quei momenti, lasciandolo senza fiato e con il groppo in gola. Dalla seconda parte della pellicola, invece, era lecito aspettarsi qualcosa di più.
Nonostante il regista intrecci con grande senso del racconto i vari piani narrativi e i diversi punti di vista messi in campo – l’attentatore, il suo avvocato, uno dei feriti sopravvissuti all’attentato, la sua famiglia, il primo ministro norvegese – il film si limita alla semplice descrizione e si perde in un eccessivo didascalismo. Per quanto le emozioni non manchino, Greengrass rimane troppo in superficie e, probabilmente per i tanti personaggi che ruotano attorno alla vicenda, non riesce ad andare a fondo nelle loro psicologie. Il dolore post trauma del giovane sopravvissuto, il dilemma interiore dell’avvocato costretto a difendere l’assassino, la follia ideologica dell’attentatore e il senso di colpa del presidente norvegese appaiono nel racconto come elementi assodati a priori, e non come “pagine” da indagare, da scandagliare, da approfondire. In più, Greengrass, se da una parte pone in evidenza le negligenze dei servizi segreti e della sicurezza del paese scandinavo, dall’altra sembra tenere il freno a mano tirato nel trattare le contraddizioni del suo sistema giudiziario che, evidentemente fondato su un’ideologia antigiustizialista, non prevede l’ergastolo e lascia spiragli di speranza anche ad un genocida.
22 July, così, dopo una potente prima mezz’ora, perde di efficacia e non spicca il volo quando dovrebbe. Un’occasione mancata a metà per il regista irlandese che, pur confermando le sue straordinarie capacità di gestione della “macchina cinema”, non riesce a sopperire ai limiti della sceneggiatura, dando la sensazione che si sia adagiato eccessivamente sulla forza immanente ai fatti narrati senza prendersi la responsabilità di dare una vera anima al film. Comunque, da vedere, per non dimenticare.