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Maniac. La nuova serie Netflix è qualcosa che non avete mai visto…

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È incredibile vedere i passi avanti che sta facendo il mondo della serialità. Dove una volta c’erano i telefilm, o le fiction, dove non si osava mai e si tendeva a una visione rassicurante della realtà, o al feuilleton, ora ci sono le serie tv (che poi non sono più nemmeno tv), prodotti seriali che sperimentano, che si spingono fino a dove neanche il cinema fa più, che parlano di cose che un tempo non avremmo mai immaginato di vedere su un piccolo schermo. Se tutto è cambiato prima con Twin Peaks, di David Lynch, che ha portato in tv il linguaggio cinematografico e lo sguardo d’autore, e poi con Lost, che ci aveva fatto capire come le cose più interessanti da vedere fossero quelle che vediamo quando guardiamo dentro di noi, Maniac, l’attesissima nuova serie di Netflix (disponibile dal 21 settembre) firmata Cary Fukunaga, raccoglie i frutti di questa evoluzione. Regalandoci qualcosa che raramente avevamo visto in tv, sia essa tradizionale, o in streaming, come in questo caso.

Cary Fukunaga, proprio nel solco di Lost, ce lo aveva fatto capire già con True Detective: la

Maniac

vera indagine è quella dentro di noi, nei nostri fantasmi, nelle nostre debolezze. E Maniac, ispirato a una serie norvegese del 2014, è un viaggio nella mente di due persone. Annie Landsberg (Emma Stone) è una ragazza apparentemente come tante, ma vive nella depressione, conseguenza di un rapporto non risolto con la madre e la sorella. Owen Milgrim è il quinto figlio di una ricca famiglia di imprenditori di New York: è il più fragile, e vive lottando con la schizofrenia. I due si incontrano grazie a un test su una nuova e misteriosa cura per la mente, che mescola farmaci e tecnologia. È racchiusa in tre pillole: A, B e C. A ognuna corrisponde un effetto, e un progresso nel proprio stato di salute. Non dovrebbero esserci effetti collaterali. Eppure…

Ogni pillola è un viaggio, un’evasione dal reale, un’esperienza. Apparentemente assurda e lontana dalle vite di Annie e Owen, in realtà li riguarda profondamente, e va a toccare un nervo scoperto della loro vita. Maniac è un continuo andirivieni tra sogno e realtà. Ma è la realtà stessa che ci appare insolita. Siamo a New York, in un tempo non troppo lontano da noi – si direbbero gli anni Ottanta – ma è una realtà parallela. È come se il nostro mondo si fosse evoluto in modo diverso: ci sono i computer che c’erano trent’anni fa, ma anche robot – che ricordano il M-O di Wall-E – che puliscono le strade dai bisogni dei cani, Koala viola (dei robot?) che giocano a scacchi, e attori che impersonano vecchi amici per soddisfare persone sole. E una Statua della Libertà che non è proprio quella che conosciamo. È una New York grigia ma illuminata dalle famose “mille luci” al neon. Reale, eppure diversa, concreta, eppure straniante. Ed è solo il punto di partenza: ma è una partenza che alza già l’asticella della storia, creando un mood che si insinua nello spettatore e lo conquista.

E continua a conquistarlo man mano che, letteralmente, si entra nella storia. Il ritmo apparentemente lento, almeno rispetto agli standard della serialità attuale, è in realtà qualcosa che serve a ipnotizzarci, ad avvolgerci, a prepararci per altri viaggi. Già entrare nelle stanze della NPB, la Neberdine Pharmaceutical e Biotech, è un viaggio unico: la tecnologia retrofuturistica (cioè il futuro come lo avremmo immaginato trenta-quarant’anni fa) ci trasporta in un mondo che potrebbe essere la plancia di una nave di Star Trek (o, se preferite, di USS Callister, l’episodio di Black Mirror ispirato alla storica serie), con postazioni bianche ed enormi computer con intelligenze artificiali che ammantano di luce rosa la scena e ci fanno entrare ancora di più nel gioco. Da lì in poi, saremo pronti a tutto: a tuffarci con Annie e Owen in scenari sempre nuovi e imprevisti, a tornare indietro ed elaborare il tutto. In realtà, saremo sempre più nei meandri della loro mente, a scavare con loro per scoprire cosa li tormenta.

E qui il gioco si fa ancora più sfaccettato. Quello che ci sembrava un film drammatico assume via via i toni del grottesco, della black comedy in stile Fratelli Coen, del noir, o del fantasy. C’è una sorpresa dietro ogni angolo. Anzi, dentro ogni pillola. Sorprendono anche gli attori protagonisti. Conoscevamo le doti di Emma Stone, che parte senza trucco e apparentemente senza espressione, per dimostrarsi una tela bianca su cui riuscirà a dipingere ogni tipo di colore. Ma la vera sorpresa è un Jonah Hill (uno a cui avremmo dato già un Oscar per The Wolf Of Wall Street) notevolmente dimagrito, quasi irriconoscibile, che lavora per sottrazione e sulle sfumature, prima afasico e poi sempre diverso nei molti ruoli che gli riserva il copione. Accanto a loro Sally Field e un Justin Theroux in parrucchino, irresistibile, nei panni del Dr. James K. Mantleray, alla guida degli esperimenti, e sua volta alle prese con i suoi problemi familiari.

Maniac potrebbe essere un episodio di Black Mirror preso ed espanso in dieci puntate da 40 minuti, che scorrono senza quasi accorgersene. Lo si guarda con curiosità, ma si finisce per venirne risucchiati. Da vedere senza soluzione di continuità: è un tipico prodotto da binge-watching. Maniac costruisce mondi insoliti e bizzarri, come certi film di Michel Gondry, gioca con l’attesa e la sorpresa come sapeva fare Ai confini della realtà, ribalta continuamente sogno e realtà come i film di David Lynch. Eppure è qualcosa che non somiglia a nessuno di questi modelli. Cary Fukunaga è riuscito a trovare un suo stile, lontanissimo anche dal suo True Detective. E Maniac, per come combina tutti i suoi ingredienti, è qualcosa di mai visto prima, in tivù o in qualunque piattaforma dove oggi si vedono le serie. Ma, soprattutto, è eccezionale per come riesce a prendere il disagio mentale e renderlo fantasia, libertà. Cioè prendere una debolezza e farne una forza. Qualcosa che la società rimuove, uno stigma, è portato all’attenzione. E i protagonisti non sono né gli eroi senza macchia, che vedevamo nei telefilm trent’anni fa, ma nemmeno gli eroi con qualche macchia, che ci piacevano una decina di anni fa. Sono una ragazza depressa e un ragazzo schizofrenico. Sono loro che ci interessano. Sono loro quelli a cui vogliamo bene.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Serie TV

La legge di Lidia Poët 2: Matilda De Angelis, eroina di ieri e di oggi. Su Netflix

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Il suo nome è Poët, Lidia Poët. Si chiama La legge di Lidia Poët la serie dedicata a questo personaggio che arriva su Netflix dal 30 ottobre 2024, e che è stata presentata ad Alice nella città, la sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma. Ma ci piace introdurla così perché Lidia, la prima donna in Italia ad entrare nell’Ordine degli Avvocati, nella finzione creata da Matteo Rovere, diventa un personaggio da storia crime, un’investigatrice in grado di risolvere gli enigmi più complicati. La seconda stagione de La legge di Lidia Poët è attesissima: la serie, vincitrice con la prima stagione ai Nastri d’Argento Grandi Serie 2023 del premio Miglior Serie ‘Crime’, è anche la serie italiana Netflix più vista nel mondo. È prodotta da Matteo e Groenlandia, società del Gruppo Banijay, e creata da Guido Iuculano e Davide Orsini. Alla regia ci sono lo stesso Rovere, Letizia Lamartire e Pippo Mezzapesa.

A Lidia non è permesso di fare l’avvocato per una legge scritta dagli uomini. Perciò questa volta punta ancora più in alto, vuole cambiare la legge. Mentre continua a collaborare con il fratello Enrico, affrontando nuovi casi e battendosi per i diritti delle donne, vuole convincerlo a candidarsi in Parlamento per far sì che la sua legge trovi finalmente voce. Lidia ha chiuso completamente con l’amore, tanto più con Jacopo, responsabile di aver venduto la villa di famiglia e in rotta di collisione con tutti i Poët. Ma Jacopo e Lidia sono costretti a rivedersi per condividere, loro malgrado, un’indagine segreta che li riguarda da vicino, riscoprendo la complicità e il divertimento che li lega da sempre.

Quella che ha avuto Matteo Rovere è stata un’ottima idea: prendere un personaggio storico e non farne un biopic ma creare un prodotto ben preciso, che rispondesse a un target e un genere molto richiesto. Il modello della serie è Enola Holmes, l’eroina dei film con Millie Bobby Brown, una giovane investigatrice, una giovane donna in un ruolo che è sempre stato appannaggio degli uomini. In quel caso l’idea vincente era stata che Sherlock Holmes avesse una sorella e che fosse anche lei investigatrice. Qui che un personaggio storico, oltre alle capacità giuridiche, potesse avere anche quelle deduttive. E allora ecco il primo avvocato donna in Italia diventare anche una detective. Sia Enola Holmes che Lidia Poët hanno in comune la deduzione, raro dono che nel primo caso verrebbe dai geni familiari, nel secondo da un’evoluzione dei suoi studi di legge. In entrambi i casi, l’idea si è rivelata vincente.

Lidia Poët è un crime, un procedural, e come tale ha una trama verticale, un caso che viene risolto nel corso di un episodio (a tratti con momenti da CSI). Ha anche una trama orizzontale, ed è questa la parte più interessante. La lotta di Lidia per entrare all’Ordine degli Avvocati si evolve, e diventa qualcos’altro: Lidia si batte per diritti più ampi, come il diritto di voto alle donne, il suffragio universale, e la partecipazione delle donne alla vita politica. Come si può immaginare sarà osteggiata, non sarà capita. Ma lei andrà avanti, con la sua ironia, con quel suo sorriso arcaico. A proposito di Storia, gli sceneggiatori si divertono a intrecciarla con le vicende di Lidia: nel terzo episodio, ad esempio, la vediamo confrontarsi con Cesare Lombroso, il famoso antropologo considerato il padre della moderna criminologia.

La forma visiva de La legge di Lidia Poët è un ibrido tra un classico period drama e una confezione pop. Gli sfondi e gli ambienti sono ricostruiti piuttosto fedelmente, e la loro immagine ha spesso la grana delle cartoline d’epoca. Ma davanti a quegli sfondi ci sono le figure in primo piano. I loro abiti sono sì d’epoca, ma hanno un che di pop, soprattutto nei colori. Sono soprattutto i costumi di Lidia, a spiccare, a portare colore in un mondo di uomini più grigio. Guardate i viola, i rossi, i blu dei vestiti che indossa Matilda De Angelis. È un chiaro messaggio: in un mondo uniformato sono le donne, come Lidia, a portare la novità.

I costumi sono chiaramente reinterpretati secondo i gusti di oggi, ed è uno dei piacevoli anacronismi che spezzano il ritmo della serie. Un altro è dato dalle musiche, che sono extradiegetiche, per cui più libere, ma comunque sono contemporanee: dalla musica elettronica di Banks (Beggin For Thread) al punk elettronico di Riival (Misfit, la sigla finale di ogni episodio). È musica che astrae Lidia dal suo tempo e la porta al nostro, rendendola un’eroina contemporanea. E raccontandoci che le lotte di Lidia sono ancora attuali, e da combattere c’è ancora tanto.

Tutto è ammantato da una fotografia incantata, che rende tutto sospeso. I colori di Matilda De Angelis, gli occhi blu e l’incarnato bianco, che a tratti diventa dorato, sono enfatizzati: Lidia sembra uscita da un dipinto d’altri tempi, come da una rivista di moda di oggi. Lidia Poët è ovunque, nel passato e anche nel presente. E anche negli anni Quaranta, perché è da lì, dal cinema della Guerra dei Sessi, in cui i protagonisti si detestavano e si amavano, che viene tutta la linea narrativa con Jacopo, un convincente Eduardo Scarpetta. Tra lui e Matilda De Angelis la chimica è perfetta. E questo è un altro ingrediente di una storia vincente.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Citadel: Diana. Matilda De Angelis è un’eroina da spy-story in un futuro oscuro. Su Prime Video

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C’è un’immagine che campeggia sugli edifici di Manticore, l’agenzia rivale di Citadel, al centro di Citadel: Diana, la nuova serie tv in streaming su Prime Video dal 10 ottobre. È la testa di un uomo che ha due facce, che ricorda molto l’icona di Giano Bifronte. Giano era una divinità romana che era raffigurata con due volti: uno guardava al passato e uno al futuro. È il perfetto simbolo di Citadel: Diana, una storia che è ambientata in un futuro prossimo venturo – un oscuro 2030 – ma allo stesso tempo torna indietro nel passato, per viaggiare dentro i fantasmi e le motivazioni dei personaggi, e legarsi in qualche modo alla serie da cui è partito tutto, la produzione americana Citadel.

Milano, 2030: otto anni prima l’agenzia indipendente di spionaggio Citadel è stata distrutta da una potente organizzazione rivale, Manticore. Da allora, Diana Cavalieri (Matilda De Angelis), spia di Citadel sotto copertura, è rimasta sola, intrappolata tra le linee nemiche come infiltrata in Manticore. Quando finalmente le si presenta l’occasione di uscirne e sparire per sempre, l’unico modo per farlo è fidarsi del più inaspettato degli alleati, Edo Zani (Lorenzo Cervasio), l’erede di Manticore Italia e figlio del capo dell’organizzazione, Ettore Zani (Maurizio Lombardi), in lotta per la supremazia contro le altre famiglie europee.

Citadel: Diana è una serie vincente già solo per l’idea che è alla base, un caso di studio. Nasce infatti da una serie principale, Citadel, prodotta e girata in America, e nata per essere a sua volta la madre di altre storie, da girare in altri Paesi (a novembre arriverà Citadel: Honey Bunny, girata in India). Citadel così ha dato vita a nuove serie che non sono dei sequel e non possono essere tecnicamente definiti degli spin-off. Sono storie che vivono nel mondo di Citadel, ma a loro volta vivono di vita propria, respirano la Storia, il clima, le influenze dei Paesi in cui sono nate. Nell’adattamento italiano, senza che diventino preponderanti rispetto alla vicenda principale, appaiono le mafie, le stragi di Stato irrisolte, una deriva verso l’autoritarismo che a volte nella Storia il nostro Paese ha preso.

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C’è dunque l’Italia, con la sua Storia, le sue peculiarità, la sua personalità in questa serie originale che vive nel mondo di Citadel, ma si discosta dalla serie madre per trovare una sua via. È un’Italia che non è mai scontata, non è mai una cartolina, mai un cliché. Al centro c’è Milano, una città tutto sommato poco frequentata dal cinema nelle sue potenzialità, una Milano città europea, internazionale, enigmatica. C’è la sua architettura razionalista, e un mood retrofuturistico che connota tutta la serie, e ci fa vedere la città come non l’abbiamo mai vista. C’è anche la Sicilia, e anche questa è completamente inedita e lontana dagli stereotipi: è l’occasione per girare una scena spettacolare ambientata nel Cretto di Gibellina in Sicilia, una gigantesca opera d’arte ambientale di Alberto Burri.

Il ruolo delle location è centrale in Citadel: Diana. Non sono mai semplici sfondi, ambientazioni, ma hanno un ruolo ben preciso nella serie. Sono spesso luoghi molto grandi, imponenti, minacciosi – che i totali del regista Arnaldo Catinari valorizzano appieno – che fanno sentire piccolo l’uomo che sta al centro, e rendono l’idea del suo ruolo in questa storia: quello di pedina in grado di essere spostata a piacimento lungo la scacchiera della vicenda. È un uomo piccolo, troppo piccolo di fronte al destino che lo attende.

Come nella scienza, in Citadel: Diana si va dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo. Ci sono i totali e i campi lunghi, ma anche i primi piani. Tanti sono sul volto di Diana, interpretata da una convincente Matilda De Angelis, pronti a coglierne la bellezza, l’aura di star ormai internazionale. E a scrutare l’enigma di un volto che, per doveri di missione, deve rimanere freddo e imperscrutabile, ma tale non è. Matilda De Angelis è in scena con un inedito caschetto a due lunghezze: i capelli sono più corti da un lato e più lunghi dall’altro, simbolo della Diana del passato che incontra la Diana del presente e del futuro. Sì, ancora una volta ecco Giano Bifronte.

Ma Giano Bifronte è il simbolo di Citadel non solo per il rapporto tra passato e futuro, ma anche perché, come vuole il mondo creato dai Fratelli Russo, ognuno ha due facce, due identità, due vite. Ognuno fa un doppio, o forse triplo, gioco. Non c’è alcuna certezza, tutto è il contrario di tutto. Citadel: Diana, prodotta da Cattleya, è riuscita a creare un mondo (con la scrittura di Alessandro Fabbri, head writer, e Ilaria Bernardini, Gianluca Bernardini, Laura Colella e Giordana Mari) dove abbiamo un continuo senso di accerchiamento, di terra che frana sotto i nostri piedi, di enorme insicurezza. La serie italiana è probabilmente più riuscita della “madre” americana. Merito della qualità produttiva, per la potenza di certe sequenze e inquadrature, di attori come Maurizio Lombardi, Filippo Nigro e la rivelazione Lorenzo Cervasio.

Ma è merito soprattutto della scrittura, e di quelle backstory che riescono a svelarci le motivazioni, il motore che muove le azioni dei personaggi. La forza di Citadel: Diana è proprio questa. Insieme al fatto di aver intercettato un senso di disagio per il mondo che abbiamo attorno, con guerre che accadono molto vicino a noi e che ci fanno temere anche per le nostre vite. Quel Duomo di Milano che crolla sotto un attentato, lasciando solo rovine e macerie, è un’immagine di quelle che restano dentro e che fanno stare male. Il senso di quell’immagine ce lo ha spiegato l’head writer Alessandro Fabbri. “Andava a dirci in modo preoccupante, inquietante: anche noi siamo esposti, non viviamo in un posto sicuro; ecco cosa potrebbe accadere qui, nella nostra terra, in un futuro non troppo lontano, se qualcosa dovesse andare storto”.

di Maurizio Ermisino

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Hanno Ucciso l’Uomo Ragno – La leggendaria storia degli 883: Su Sky e NOW ecco Max e Mauro, eroi degli anni Novanta

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Sheena is a punk rocker, cantavano i Ramones. Ma anche Max Pezzali è stato un punk rocker. È nato tutto da lì. Dai Ramones, dai Sex Pistols, dai Clash e i Dead Kennedys. “Ma perché nessuno ascolta punk a Pavia?’” si chiede a un certo punto Max. Essere un punk a Pavia doveva essere molto duro nel 1989. Ma da lì, da quell’attitudine punk, è nata una storia che ha cambiato il modo di fare musica pop in Italia, e che dura ancora oggi: quella degli 883. Ce la racconta Hanno Ucciso l’Uomo Ragno – La leggendaria storia degli 883, la serie Sky Original di Sydney Sibilia, prodotta da Sky Studios e Groenlandia, in arrivo su Sky e NOW in esclusiva dall’11 ottobre. Una serie che ci riguarda tutti. Chi ama la musica degli 883, ma anche chi è stato adolescente in una città di provincia negli anni Ottanta e Novanta, chi è un adolescente adesso, e ha gli stessi problemi di quelli di allora. E ancora, chi ama le storie degli outsider, le storie di rivalsa. Come Rocky. Sì, perché nel primo film Rocky perde, ma poi riesce a vincere e ci fanno altri 5 film. E così anche Max Pezzali e Mauro Repetto sono passati più volte per la sconfitta. Ma, come sappiamo, l’importante non è cadere. È quanto in fretta ti rialzi.

Siamo nell’estate nel 1989. Max viene bocciato alla fine dell’anno scolastico. I genitori, così, non lo mandano in vacanza, ma lo fanno lavorare nel loro negozio di fiori: tutta l’estate a fare consegne, a fare anche i funerali. Ma è a uno di questi che incontra Silvia Panayiotopoulos, per tutti Silvia Atene, una ragazza che si è trasferita a Pavia e che quella sera non ha nessuno con cui uscire. Max le dice che si intende di musica, che scrive canzoni, e lei gli chiede di scriverne una per lei. Max non ha mai suonato nulla, ma prende una chitarra e inizia a comporre. Alla fine dell’estate, nella nuova scuola in cui lo hanno iscritto i suoi, incontra il suo nuovo compagno di banco. È Mauro Repetto. Quella cassetta con la prima canzone scritta, la tenacia di Mauro nel trovare il suo talento, e qualcuno con cui farlo esplodere, faranno nascere gli 883.

Hanno ucciso l’Uomo Ragno è questo, una serie di fili che si snodano e si riannodano, una serie di coincidenze che si legano l’una a all’altra per dare vita a qualcosa di speciale, un po’ come Il favoloso mondo di Amelie in chiave punk e ambientato a Pavia. In questo far partire le storie da un punto di vista insolito (ogni episodio è un capitolo a sé, con un tema e uno svolgimento, anche se concorre alla storia orizzontale) c’è la mano di Sydney Sibilia, uno per cui le storie fanno dei giri immensi e poi ritornano. Questo modo di raccontare, iniziando da angoli nascosti per arrivare al centro, è una qualità delle grandi serie (senza fare confronti, ma solo come schema narrativo degli episodi, ci vengono in mente Lost e The Crown).

Non sono mai stati punk, gli 883, ma avevano una punk attitude. Che cosa vuol dire? Vuol dire buttarsi. Dire di essere un deejay senza esserlo ancora, dire di essere un cantante senza saper ancora suonare e cantare. Dire di avere un intero album pronto quando ancora non ce l’hai. Vuol dire avere dei piani arditi, temerari. Ma che a volte riescono. Chi ce l’ha fatta è stato sempre qualcuno che ha avuto idee più grandi di lui. E, in quegli anni, Max e Mauro hanno avuto una grande idea. Hanno avuto un grande sogno.

Anche Sydney Sibilia, a suo modo, è punk. Lo è per come racconta gli underdog, gli anarchici, degli ultimi, degli outsider. Per come ama i pirati. I pirati che, da ricercatori precari, creano il loro business fuori dalla legge (Smetto quando voglio). I pirati che creano il loro Stato libero in mare aperto (L’incredibile storia dell’Isola delle Rose). I pirati che creano il loro mondo discografico (Mixed By Erry). E quelli che vogliono entrare nello show business a Pavia. Hanno ucciso l’Uomo Ragno sembra essere il controcampo di Mixed By Erry, o il suo sequel, per come si muove in un universo fatto di cassettine analogiche, negozi di strumenti musicali, stereo e mixer. “A Mauro Repetto mancava sempre quel tanto così” in ogni cosa che faceva. Gli eroi di Sydney Sibilia sono tutti così. Ma ce la fanno lo stesso. Sono personaggi in cui, in una situazione in cui ci sono due scenari possibili, si creano da soli il terzo scenario. Hanno in sé un talento: l’arte di arrangiarsi, di farcela contro ogni pronostico.

Max e Mauro (Elia Nuzzolo e Matteo Oscar Giuggioli, bravissimi e perfetti nei loro ruoli), come li vediamo nella serie, sono proprio così. Sono due personaggi dei fumetti, proprio come L’Uomo Ragno che cantano nella loro canzone più famosa. Come due Willy il coyote, sono quei cartoon che cadono mille volte senza farsi mai male, senza morire mai. Non li butti giù, Max e Mauro. Non ci è riuscita l’indifferenza generale dopo la prima apparizione in tv (a 1 2 3 Jovanotti, quando ancora si chiamavano i Pop e facevano musica rap in inglese). Non ci è riuscito il primo rifiuto di Claudio Cecchetto a pubblicare il loro album, nella sua prima versione, quando ancora mancava qualcosa.

Già, Jovanotti e Claudio Cecchetto. Nella serie sugli 883 ci sono loro, ma appaiono anche altri nomi di quel mondo, come Fiorello e Sandy Marton. O nomi grandi come i Public Enemy e i Metallica. Tutta la storia è vista con lo sguardo stupefatto di un ragazzo di Pavia che incontra il mondo che aveva sempre sognato. Max Pezzali, probabilmente, è così ancora oggi: un ragazzo in grado ancora di stupirsi, un uomo ignaro di essere una popstar e uno dei grandi autori di canzoni della storia recente.

Ma scorrendo questi nomi avrete capito anche che Hanno ucciso l’Uomo Ragno è anche un grosso amarcord, un come eravamo, un viaggio a ritroso negli anni Novanta. Sibilia e il suo staff hanno fatto di tutto per corredare il viaggio con momenti e oggetti iconici. Il walkman, il telefono a gettoni, le macchine fotografiche con la pellicola. E ancora il Festivalbar e il Karaoke, e chi più ne ha più ne metta. È un viaggio dove tutto torna. Guardate la serie (8 episodi) fino in fondo, e seguite quella cassettina con la canzone per Silvia. E sentite cosa ci sarà lì dentro.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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