Eventi TV
Il processo ai Chicago 7: storia, attori, Aaron Sorkin, il grande cinema è su Netflix
Dal 16 ottobre, appena li avete, prendetevi due ore (e dieci) libere, e non fatevi interrompere da nessuno. Provate a ricreare il buio in sala, e immergetevi nella visione de Il processo ai Chicago 7, ora disponibile su Netflix dopo una breve uscita in sala. Prima di tutto, perché, anche se lo vedrete a casa, è uno di quei film che al cinema ci hanno tolto il fiato. E poi perché è così denso che non vi potrete distrarre nemmeno un attimo. Il processo ai Chicago 7 è scritto e diretto da Aaron Sorkin (sceneggiatore di West Wing, The Social Network e Steve Jobs). È la storia di un processo molto famoso nella storia americana. Quello a sette uomini accusati di cospirazione e incitamento alla sommossa. Nell’estate del 1968 quella che doveva essere una manifestazione pacifica alla convention del partito democratico statunitense da parte dei movimenti pacifisti contro la guerra nel Vietnam si trasformò in una serie di scontri violenti con la polizia e la Guardia nazionale. Abbie Hoffman, Jerry Rubin, Tom Hayden, Bobby Seale e altri leader pacifisti finirono così sul banco degli imputati.
L’assassino torna sempre sul luogo del delitto. E Aaron Sorkin torna a quel legal drama che lo aveva visto esordire alla sceneggiatura nel lontano 1992 con Codice d’onore. I momenti emozionanti del genere di sono tutti: i teste chiamati a deporre, il famoso “obiezione, vostro onore”, i colpi di scena, gli oltraggi alla corte. Quello che cambia sono i toni. Qui è tutto più ironico, beffardo. Perché serve a ricordarci l’assurdità delle accuse, la malafede con cui fu gestito il processo. Che fu prima di tutto un processo politico. Una volta insediato il Presidente Nixon, e nominato il procuratore distrettuale in linea con le sue idee, vennero ripresi dei capi d’accusa che il precedente procuratore aveva fatto cadere. L’assurdità del processo è tutta nel personaggio del giudice, borioso e fazioso, interpretato alla grande da Frank Langella.
Il processo ai Chicago 7 è infatti prima di tutto un film di scrittura, ma anche un film di attori. La scrittura è puro Aaron Sorkin: esplosiva, briosa, una mitragliatrice di parole. Da qui il consiglio che vi davamo sopra: preparatevi per non perdervene neanche un secondo. Ancora una volta in Sorkin c’è un grande lavoro di documentazione unito a una scrittura in grado di rielaborare la realtà, enfatizzandone alcuni aspetti. È anche un film di montaggio, perché Sorkin è abilissimo nel legare il dentro e il fuori, il prima e il dopo, cioè quello che accade nell’aula di tribunale, nella quale ci troviamo per gran parte del film, con il mondo fuori.
Ma, come dicevamo, Il processo ai Chicago 7 è anche un film di attori. Di Frank Langella abbiamo detto. Ma dobbiamo citare anche Sacha Baron Cohen, nel ruolo dell’istrionico pacifista Abbie Hoffman, Joseph Gordon-Levitt, che per una volta fa il personaggio negativo, l’avvocato dell’accusa (ma guardate il film fino alla fine…) e Michael Keaton, in una breve e intensa apparizione nel ruolo del teste chiave. Eddie Redmayne è Tom Hayden, leader degli Students for a Democratic Society (SDS), il più lucido e moderato tra gli attivisti, destinato a una grande carriera politica, e Mark Rylance è l’empatico avvocato della difesa.
Il processo ai Chicago 7 è grande cinema civile. È la storia di un gruppo di persone che sono state picchiate e poi arrestate per aver portato in giro delle idee. Abramo Lincoln diceva che il popolo ha il diritto di smembrare o rovesciare i governi che non lo soddisfano. Il film di Aaron Sorkin è qui a ricordarci questo: il diritto al dissenso, il diritto alla democrazia. Guardatelo con la giusta attenzione. Lo vedrete in tv, o su un computer. Ma sarete al cinema.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Eventi TV
In Vogue: The 90s: Chiedi chi era Anna Wintour. Su Disney+
Published
2 mesi agoon
16 Settembre 2024Chiedi chi era Anna Wintour. Per chi segue la moda, il nome è noto: è la storica direttrice di Vogue America dalla fine degli anni Ottanta, la giornalista che ha potere di vita o di morte su qualsiasi stilista o collezione. Per chi non la conoscesse, è il personaggio a cui è ispirata la Miranda Priestley di Meryl Streep de Il Diavolo veste Prada. Per conoscerla meglio, e per conoscere tutto l’universo e le infinite connessioni che girano intorno a lei, ora è disponibile In Vogue: The 90s, la docuserie in streaming da venerdì 13 settembre con il Volume I (i primi tre episodi, che abbiamo visto in anteprima), seguito il 20 settembre dal Volume II (i successivi tre episodi) in esclusiva su Disney+ in Italia e negli altri Paesi e su Hulu negli Stati Uniti.
“È un enigma warholiano”. Così definisce Anna Wintour un giornalista di Vogue che ha lavorato con lei. Vogue: The 90s è un documentario imprescindibile per conoscerla davvero. Ma, come dicevamo, è eccezionale anche per capire come, negli anni Novanta, il mondo della moda uscì dal suo castello dorato ed elitario per entrare nel costume, nella cultura pop, nel gossip, insomma nelle case di tutti noi. La forza di questo documentario è proprio quella di far capire chiaramente come, in quegli anni, il mondo della moda fosse in connessione con i mondi più creativi, come quello della musica (il rock e il rap) e il mondo del cinema. Erano universi che si compenetravano e si influenzavano a vicenda.
Chi ha sempre seguito la moda conosce tutti i nomi degli stilisti e delle top model assurti alla gloria negli anni Novanta. Ma anche chi in quegli anni seguiva altro, come appunto la scena musicale o il mondo del cinema, chi comprava riviste non solo di moda, quei nomi li trovava continuamente davanti. Magari li seguiva distrattamente, mentre cercava su un giornale la sua band o la sua attrice preferita, o mentre guardava MTV. La moda e le sue icone erano ovunque, e non potevano essere ignorate. Guardare In Vogue: The 90s vuol dire fare un salto indietro nel tempo, rivivere parte della propria gioventù. È dire: io c’ero, anche se pensavo di essere da un’altra parte.
Quello che ci fa capire In Vogue: The 90s è che la moda è come la Storia, quella con la S maiuscola. È un mondo che ha assistito ad ascese e cadute, a rivoluzioni contro l’establishment, a ribellioni anti-sistema. E poi a un sistema che in qualche modo ha reagito e ha inglobato queste nuove onde tanto da farle diventare parte di esso. Vogue, e la capacità di Anna Wintour di intuire le next big thing e di portarle sulla sua rivista, donando loro in qualche modo l’approvazione e l’attestazione di far parte di quel mondo, sono stati una parte importante di questo processo.
Il primo episodio, All Changes At Vogue, ci porta a New York nel 1988, quando Anna Wintour diventa direttrice di Vogue America. Anna decide di distruggere tutto per ricostruire tutto di nuovo. Allora le copertine di Vogue erano tutte uguali: un volto in primo piano, sempre con lo stesso trucco, sempre con la stessa luce. C’è un episodio che la Wintour ricorda: su un aereo, un uomo le disse che Vogue evocava volti come quelli di Audrey Hepburn e Grace Kelly. Vogue non potrà mai essere Madonna. E invece Anna Wintour pensa che Vogue debba mettere in copertina proprio personaggi come Madonna. Così nasce la famosa copertina in cui la popstar esce dalla piscina senza trucco. Il primo episodio racconta anche l’ascesa delle famose supermodel (Linda Evangelista, Christy Turlington, Cindy Crawford, Naomi Campbell, Helena Christensen, Claudia Schiffer), ma anche quella, di poco successiva, di una modella fuori dai canoni come Kate Moss, fotografata da Corinne Day sulla cover di The Face e subito scelta da Calvin Klein per le sue campagne pubblicitarie.
L’episodio 2, The Fashion Rebels ci catapulta invece nel cuore di Londra, alla metà degli anni Novanta. In America c’era stato il grunge, che aveva iniziato in qualche modo un movimento di anti-fashion: stilisti come Perry Ellis e Marc Jacobs cominciavano a intendere la moda in modo diverso. In Inghilterra, riviste come I-D pubblicavano un altro tipo di moda e di modelle. Ma un servizio con Kate Moss su I-D era un conto, su Vogue era un altro: così una ragazza troppo giovane, troppo magra, troppo nuda, una lolita su Vogue scatenò le polemiche. Ma tutto era nato per raccontare che cosa accadeva a Londra, dove musicisti, attori e stilisti frequentavano gli stessi posti e si influenzavano. Nascevano così le stelle di Alexander McQueen, con il suo stile dark e perverso, e Stella McCartney. Insieme a John Galliano avrebbero conquistato le grandi case di moda francesi, come Dior, Givenchy, Chloé.
L’episodio 3, The Hollywood Merger, parla delle stelle del cinema, e anche un po’ della nostra moda. Siamo sempre a metà degli anni Novanta, e l’influenza del grunge si sente ancora: i giovani, e le giovani star di Hollywood, amavano ancora vestirsi con i propri abiti, anche sul red carpet. Ma tutto cambia nel giorno della premiere di Quattro matrimoni e un funerale a Londra. Accanto al protagonista Hugh Grant c’è la sua compagna, Elizabeth Hurley, che quasi per caso si presenta con un abito di Versace retto da spille da balia, molto punk e molto sexy. La visibilità che ha l’attrice e quella del marchio Versace arrivano alle stelle. Sono gli anni in cui inizia l’ascesa di Gucci, marchio conosciuto per le borse degli anni Sessante e Settanta, non certo una potenza nella moda, che si affida a Tom Ford: lo stilista americano riporta in voga gli anni Settanta, e l’atmosfera sexy dei locali come lo Studio 54. Per Ford la moda, e lo show legato ad essa, dovevano essere cinematografici. E così riesce a cogliere il mood del momento, lo zeitgeist dei tempi che stavamo vivendo. Capisce come Hollywood voleva vestire: Madonna, Nicole Kidman, Gwyneth Paltrow amano Gucci. Mentre Romeo + Juliet di Baz Luhrmann lancia un altro talento italiano, agli antipodi del mondo di Gucci: Miuccia Prada. C’è anche tanto della storia della nostra moda, in questa docuserie. Anche per questo è davvero da non perdere.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Eventi TV
La donna del lago: Natalie Portman in un noir torbido e avvolgente. Su Apple Tv+
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4 mesi agoon
19 Luglio 2024“Dicono che fino a che il leone non racconta la sua storia il cacciatore sarà sempre l’eroe. Da viva, ero Cleo Johnson. Ma da morta sono diventata la donna del lago”. È Cleo, una delle protagoniste della storia, a introdurre la sua storia da morta, come William Holden in Viale del tramonto. Inizia così La donna del lago, la nuova serie in sette puntate con Natalie Portman e Moses Ingram. Creata e diretta da Alma Har’el, La donna del lago è disponibile in streaming su Apple Tv+ dal 19 luglio con i primi due episodi seguiti da nuovi episodi ogni venerdì, fino al 23 agosto. È un noir torbido e intrigante e un viaggio indietro nel tempo nell’America degli anni Sessanta – e per qualche momento nei Quaranta – tra musica jazz, omicidi, e storie di emancipazione femminili.
Quando la scomparsa di una giovane ragazza sconvolge la città di Baltimora nel giorno del Ringraziamento del 1966, le vite di due donne convergono in una rotta di collisione fatale. Maddie Schwartz (Portman) è una casalinga ebrea che cerca di liberarsi di un passato segreto e di reinventarsi come giornalista investigativa; Cleo Sherwood (Ingram) è una madre che naviga nel ventre politico della Baltimora nera, mentre si danna per mantenere la sua famiglia. All’inizio le loro vite sembrano scorrere in parallelo, ma quando Maddie si incaponisce sulla misteriosa morte di Cleo, si apre un baratro che mette in pericolo tutti coloro che le circondano.
Suggestivo sin dall’inizio e dai titoli di testa, La donna del lago è un racconto che ne contiene dentro molti altri. È un noir, un thriller, ma anche un racconto di emancipazione femminile. Le storie parallele e collegate di Maddie e Cleo, ci portano in due ambienti diversi: quello delle famiglie ebree e quello delle comunità afroamericane. Due mondi completamente diversi per posizione sociale, usanze, stili di vita, comportamenti. Eppure uniti dal fatto di lasciare poco, pochissimo, spazio alle donne. Maddie non può lavorare, non può acquistare un’automobile senza la firma del marito, non può neanche unirsi agli altri della sua comunità nella ricerca di quella giovane ragazza scomparsa nel giorno del Ringraziamento. Cleo è costretta a fare due, tre lavori, di giorno e anche di notte, oltre al volontariato per il movimento politico afroamericano. È sempre costretta ad obbedire a degli uomini, appesa al loro volere, deve sempre sentirsi dire cosa fare.
I sogni e i desideri di queste due donne sono diversi. Un flashback ci porta indietro alla fine degli anni Quaranta quando Maddie era una studentessa e voleva scrivere, fare la giornalista. Era promettente, era brava. Ma in una società chiusa come quella che racconta la serie, una moglie può solo essere una casalinga. Con toni completamente diversi – drammatici e da thriller invece della commedia – la storia di Maddie è simile a quella di Midge, la protagonista de La meravigliosa signora Maisel. Entrambe sono mogli, entrambe fanno parte della comunità ebrea, entrambe possono essere solo madri e casalinghe. Non possono fare alcun lavoro. La voglia di scoprire la verità di Maddie allora è anche la voglia di emanciparsi, di essere se stessa, di trovare la propria strada.
Questa nuova serie consolida di fatto la nuova stagione della carriera di Natalie Portman. Non più ragazzina, non più figlia ma madre, donna matura ma sempre con quel volto da bambina, uno dei volti più belli del cinema della nostra epoca. Forte, determinata, allo stesso tempo fragile. Ed elegantissima, sin dalle prime sequenza in cui la vediamo in un doppio abito giallo. In alcune sequenze, grazie al de-aging, il ringiovanimento digitale, ritroviamo anche la giovane Natalie come l’avevamo conosciuta tanti anni fa, quando fu immediatamente un colpo di fulmine.
Natalie Portman è una luce che brilla in un mondo nero come la notte, un mondo avvolgente, vorticoso, pullulante di figure che si muovono apparentemente senza controllo, mentre ognuna di loro, come capiremo, ha un senso. La donna del lago è una serie fatta di grandi ricostruzioni storiche, grandi scene d’insieme, un kolossal in 7 episodi, che vive e pulsa anche grazie alla musica jazz. La colonna sonora è stata composta da Marcus Norris, fondatore e direttore artistico della South Side Symphony. Le performance dal vivo sono state composte e prodotte da Bekon, produttore nominato ai Grammy e noto per il suo lavoro sugli album DAMN. e Mr. Morale & the Big Steppers di Kendrick Lamar. C’è tutto per farsi avvolgere e sprofondare in una lunga e buia notte.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Robots: Ho visto il mio robot che bacia lui che bacia lei che bacia me…
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1 anno agoon
18 Luglio 2023Sulla possibilità che l’uomo fosse in grado di costruire una copia artificiale di sé il cinema riflette praticamente da quando è nato. Méliès, uno dei primi, grandi, cineasti della storia, costruiva degli automi. E al centro di Metropolis di Fritz Lang, uno dei primi capolavori della fantascienza, c’era l’iconica donna robot. Li abbiamo chiamati in tanti modi: robot, replicanti, automi, cyborg, mecha, androidi, surrogati. E le storie che raccontavano di loro avevano ogni volta un tono diverso: inquietanti, poetiche, fantastiche, incantate, epiche, divertenti, beffarde. Da scriverci un libro, anzi un’enciclopedia. In Robots, il nuovo film in streaming su Prime Video, l’eterno tema del confronto uomo-robot ritorna sotto forma di commedia sentimentale, o degli equivoci. E, se volete, anche un po’ commedia di costume.
Siamo in un’America del prossimo futuro, intorno al 2030. Un donnaiolo, Charles (Jack Whitehall), e una cacciatrice di dote (in inglese una “gold digger”, cercatrice d’oro), Elaine (Shailene Woodley) hanno una cosa in comune: entrambi ingannano le persone nelle relazioni attraverso sosia illegali di loro stessi. Lui ama fare sesso con le ragazze, ma non vuole perdere tempo a corteggiarle (e neanche a lavorare, a dire il vero): così manda il suo alter ego, C2, in ufficio e agli appuntamenti con le donne, fino a quando non arriva il momento… Lei invece è tutto il contrario: ama gli appuntamenti, con uomini che non le interessano, perché le regalano gioielli, borse e tutto il resto, ma quando si tratta di andare a letto evita. E manda la sua copia, E2. Arriva però il momento in cui inconsapevolmente utilizzano questa truffa l’uno contro l’altra. E così capita che i loro sosia robot si innamorino e fuggano insieme. Charles ed Elaine, a prima vista, non si sopportano. Ma si troveranno a collaborare per dare la caccia ai loro replicanti prima che le autorità scoprano il loro segreto.
Potete vedere Robots come vi pare. Ci è venuto in mente un altro titolo, Palm Springs – Vivi come se non ci fosse un domani, perché utilizzava l’espediente del loop temporale (il vivere in continuazione lo stesso giorno, come in Ricomincio da capo) per fare essenzialmente una commedia sentimentale. Robots, in fondo, potrebbe essere questo: prendere un tema come quello dei replicanti/automi/robot, solitamente destinato alla fantascienza distopica, e farne una commedia sentimentale che rientra nel classico schema della Guerra dei Sessi Anni Quaranta, quello in cui i due protagonisti prima si detestano e poi sono destinati ad innamorarsi. Ma potreste vedere anche tutto questo al contrario: Robots potrebbe essere una commedia sentimentale piacevole e gradevole con dentro un film di fantascienza, ma anche una satira graffiante della nostra società.
Sì, Robots è anche un film di fantascienza. Perché, in fondo, riprende il tema di Blade Runner, i replicanti che si ribellano ai propri creatori e prendono coscienza di sé. E anche quello di Westworld, in cui queste creature artificiali, appena diventate consapevoli di sé, sono delle creature vergini, pure, e quindi in grado di avere sentimenti puliti e sinceri al contrario degli umani, ormai presi da troppe sovrastrutture ed egoismi. Ancora una volta, quindi, il concetto è ribaltato: siamo noi umani ad essere diventati disumani. E chi umano non è, in fondo lo è più di noi.
Per questo Robots è anche satira sociale. Perché mette in scena il cinismo di oggi, l’utilitarismo che ci anima. Alla sua copia, il C2 che va al lavoro al posto suo, e che aiuta una mamma a piegare il passeggino e a metterlo nel bagagliaio, Charles rimprovera il fatto che non ha senso fare una buona azione per poi non postarla sui social. Ma anche i replicanti, C2 ed E2, una volta innamorati e sostituitisi agli originali, finiscono per prendere le loro stesse abitudini, e a celebrare la loro vita sui social media. Ma la satira sociale diventa anche politica, quando si vede quel muro tra gli Usa e il Messico di cui parlava Donald Trump e che in un futuro prossimo sembra diventato realtà. E quando ci mostra i robot dediti ai lavori pesanti che una volta facevano gli stranieri, che, nella realtà immaginata dal film, negli Stati Uniti non ci sono più.
Ecco che allora i messaggi arrivano potenti anche se racchiusi in una storia con i toni della farsa e con una recitazione leggermente sopra le righe. Quella che sarebbe potuta essere benissimo una puntata di Black Mirror allora diventa qualcosa di diverso, sceglie toni più leggeri, tra la farsa e la commedia rosa, lascia l’inquietudine in secondo piano: ma questo non vuol dire che non ci sia. Un film di questo tipo è anche una prova di bravura degli attori protagonisti, che si dividono tra il loro ruolo reale e quello robotico, con sfumature recitative non banali. Bravi entrambi, ma spicca Shailene Woodley, attrice versatile che qui tira fuori il suo lato più sexy e allo stesso tempo ciarliero. E che di ruoli ne fa addirittura tre. Ma il terzo lo lasciamo scoprire a voi.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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