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All That You Can’t Leave Behind: Quando gli U2 incisero il loro album “pop”…

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C’è stato un attimo, durante l’ultimo giorno delle registrazioni di Pop, il disco degli U2 del 1997, in cui Larry Mullen, il batterista della band, sussurrò qualcosa nelle orecchie a Bono. “Perché non facciamo davvero un disco pop, la prossima volta?”. Pop era tutto tranne che questo. E il loro vero disco Pop gli U2 lo avrebbero fatto qualche anno dopo. All That You Can’t Leave Behind, uscito nell’ottobre del 2000, vent’anni fa, è proprio questo. Amato da molti, da altri guardato con un po’ di sufficienza, spesso sottovalutato, ma con dentro una serie di grandi canzoni. All That You Can’t Leave Behind è stato ora ristampato per il 20° anniversario. Questa riedizione contiene le 12 canzoni della track-list originale rimasterizzate per l’occasione. E nel cofanetto Super Deluxe saranno incluse ben 51 tracce.

All That You Can’t Leave Behind nasce da una sorta di insoddisfazione, di scottatura degli U2 con l’album precedente, Pop, un disco contaminato, elettronico, scintillante e decadente che non aveva incontrato appieno il favore del pubblico americano: un “relativo” insuccesso del disco e alcune date che non erano andate sold out, sempre negli States li avevano fatti riflettere. “L’esperienza di Pop ci aveva lasciati pieni di lividi ed ematomi” raccontò Bono. “Anche se i biglietti e i dischi venduti erano nell’ordine di milioni, il disco non aveva entusiasmato come avevamo sperato. Ci lasciò la sensazione di non aver messo i puntini sulle i e i trattini sulle t”. Oggi quel disco è un vero e proprio “cult” tra i fans. Ma allora gli U2 sentivano il bisogno di un ritorno a casa, alle origini, perché a forza di reinventarsi si finisce per essere prevedibili, come disse Bono. Tornare a casa per i quattro di Dublino vuol dire tornare a lavorare con gli storici produttori Brian Eno e Daniel Lanois, gli artefici dei capolavori The Unforgettable Fire, The Joshua Tree e Achtung Baby. E tornare a registrare senza pressioni, in un’atmosfera rilassata. È così che nascono canzoni come Kite, uno di quei pezzi che, appena usciti, sono già un classico. È una canzone che prende vita da un momento da papà di Bono: di ritorno da un tour decide di portare le sue bambine, Jordan e Eve, sulle colline vicino a casa per far volare un aquilone. Ma a quel papà premuroso ma un po’ imbranato il filo scappa di mano e l’aquilone vola via, e si disintegra. Kite parla di questo. Del lasciar andare. Ma il Bono che canta è il papà che sa che lascerà andare le sue bambine un giorno, o è il figlio che sa che sarà suo padre a lasciarlo? Kite è una delle prime canzoni ad essere registrate, e la voce di Bono arriva a delle vette che non raggiungeva da anni. Quando canta i versi “I’m a man, I’m not a child” restano tutti a bocca aperta. Erano dieci anni che non c’era una nota così alta, a voce piena, in un disco degli U2.

Ma accanto a quella voce così libera di volare ce n’è un’altra, una voce rotta dalla notte e dall’alcool.  È proprio la traccia dopo Kite, la n.6, In A Little While, “un hangover che si trasforma in una canzone gospel”, grazie al consiglio di Joey Ramone, che l’aveva ascoltata prima di morire. Il leader degli U2 arrivò in studio dopo aver fatto le sei di mattina, dopo una nottata di baldoria, e aver dormito un paio d’ore. Con i postumi della sbornia, con una voce roca, ha intonato una canzone d’amore, per la sua Ali “quella piccola ragazza con gli occhi spagnoli”, quei Spanish Eyes a cui aveva già dedicato una canzone ai tempi di The Joshua Tree. In A Little While, cantata con quella voce, diventa comica, e allo stesso tempo accorata, struggente, vera.

All That You Can’t Live Behind sarà il disco degli affetti, della tenerezza, ma anche del dolore e della perdita. Il titolo viene dalle strofe iniziali di Walk On, un brano mid tempo epico, in classico stile U2 (dedicato a Aung San Suu Kyi, allora leader dell’opposizione in Birmania, poi macchiatasi di varie violazioni dei diritti umani, una volta al potere, per cui la dedica è stata rinnegata), che recitano “And love is not the easy thing, the only baggage you can bring is all that you can’t leave behind” (l’amore non è una cosa facile, il solo bagaglio che ti puoi portare è quello che non ti puoi lasciare dietro). E quello che non puoi lasciare dietro è l’amore, gli affetti più intimi.

È un disco con il quale gli U2, per la prima volta, guardano al loro passato. Beautiful Day, il primo singolo e la canzone che apre l’album, è sostenuta da un suono di chitarra, una Gibson Explorer, un classico suono U2 che la band non usava dai tempi di War, nel 1983. E così ha discusso molto se fosse il caso di riproporlo. Ma alla fine non ci sono stati dubbi. Perché per “rispondere all’inserzione per il lavoro di miglior band del mondo” (come avrebbe dichiarato Bono ai Grammy Awards, proprio dopo aver vinto con questo disco) si può anche riprendere un suono che è un marchio di fabbrica. La canzone, che parla di un uomo che ha perso tutto, ma sente che può vivere ancora una bella giornata, è un brano semplice ma complesso: c’è una parte di batteria elettronica, ci sono violini, un giro di tastiere che è diventato un giro di chitarra, e dei cori nati per caso e diventati quella pennellata di colore che serviva alla canzone.

All That You Can’t Leave Behind è anche un disco che parla tanto di morte. Stuck In A Moment You Can’t Get Out Of è dedicata a Michael Hutchence, amico di Bono e leader della band degli INXS, morto suicida qualche anno prima. È una canzone particolarissima, nata al piano grazie a The Edge, con degli accordi gospel e un ritornello che profumava del soul della Motown. Bono voleva scrivere un testo che non fosse sdolcinato e sentimentale. Perché Michael non lo avrebbe voluto, gli sarebbe piaciuto ben altro. E quella canzone così pop andava bilanciata. Così se ne uscì con quei versi con cui attacca il pezzo, “I’m not afraid of anything in this world, There’s nothing you can throw at me that I haven’t already heard” (Non ho paura di niente a questo mondo, non c’è niente che tu possa gettarmi addosso che non abbia già sentito). È una sorta di dichiarazione di sfida, “come quando si sporge la mascella in fuori prima di una rissa”, disse Bono. Briano Eno trasformò il brano in qualcosa di unico: Edge aveva suonato il giro della canzone su un piano e lo aveva passato su un sequencer. Eno prese le note, eliminò le prime e le seconde e lasciò solo le terze note di ogni giro. In questo modo l’intro della canzone diventa qualcosa di sospeso e incantato, come se fosse il rintocco di alcune campane. Peace On Earth, dedicata alle vittime di un attentato a Omagh che, nell’agosto del 1998, rischiò di far fallire le trattative di pace in Irlanda, è invece una preghiera sommessa e accorata perché si fermi la violenza. Ma la morte tornerà ancora, nella storia di questo disco.

All That You Can’t Leave Behind è sempre stato raccontato come il ritorno alle origini “U2 back to their basics”, ma è qualcosa di molto altro. C’è la voglia di tornare suonare in quattro, chitarra, voce, basso e batteria, certo, ma è forse il disco meno rock della band. C’è dentro il gospel, il soul, alcune cose di Al Green e Dusty Springfield, i Beatles di Ob-La-Di, Ob-La-Da, che Edge avvicina a Wild Honey, il brano più leggero dell’album, non amatissimo dai fan. Ha dentro alcuni suoni che arrivano dal passato, ma All That You Can’t Leave Behind non suona come nessun altro disco degli U2, né precedente, né successivo. Ha un suono fuori dal tempo, sospeso tra le epoche e tra i generi. La produzione di Brian Eno e Daniel Lanois, in realtà, ha soffocato in molti punti la potenza del suono degli U2. Ma è un disco che ha una sua dolcezza. È un disco curativo, capace di sollevarti quando sei a terra, di carezzarti, di abbracciarti. E anche di darti un bel calcio per farti ripartire.

E così la band è ripartita, in un giro in torno al mondo, nell’Elevation Tour. Un concerto che, come il disco, doveva essere un ritorno all’essenziale dopo gli eccessi del PopMart Tour. Un concerto pensato per essere suonato al chiuso, nelle arene (solo i concerti a casa nostra, a Torino, e a casa loro, allo Slane Castle vicino Dublino, sono stati outdoor), con una passerella a forma di cuore ad avvolgere il pubblico e quattro schermi in bianco e nero a riprendere i quattro musicisti, che arrivano in scena con le luci ancora accese. Il concerto sarà, anche qui, molto più articolato, di quello che sembra. Ce lo ricordiamo per Bono ed Edge che si guardano negli occhi, mentre la musica si ferma, per cantare l’ultima strofa di In A Little While, “slow down your beating heart”, per la versione più bella di The Fly mai sentita, per Bullet The Blue Sky che Bono dedica a John Lennon e, parlando del suo assassino, Mark Chapman, diventa un’invettiva contro la lobby delle armi americana, che fa sì che sia così facile per tutti possedere una pistola.

Sarà, in qualche modo, ancora la morte a rendere memorabili alcuni concerti del tour. Quello di Torino, andato in scena nel luglio del 2001, il giorno dopo i fatti del G8 di Genova e la morte di Carlo Giuliani, vedranno un Bono infuocato gridare “violence is never right”, durante Sunday Bloody Sunday. Sarà in concerto lunghissimo, con due fuori programma, dovuti alla comunione che si era creata tra il pubblico e la band, che non ne voleva proprio sapere di lasciare il palco. Gli occhi lucidi, emozionati di Bono che guarda il pubblico prima di lasciare la scena sono difficili da dimenticare. La morte di Bob Hewson, il padre di Bono, arriverà durante le date inglesi e irlandesi del tour, e la band suonerà, nell’attesissimo concerto di Slane Castle, a fine agosto, proprio il giorno dopo il funerale di Bob, rendendo anche quel concerto unico. Ma gli U2 si troveranno anche a suonare a New York, al Madison Square Garden, pochi giorni dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Ancora una volta la loro musica è lenitiva- Durante Where The Streets Have No Name, le luci si accendono per inquadrare il pubblico. Ci sono 10mila persona con il volto in lacrime. “Siete bellissimi stanotte” grida loro Bono. È un verso che diventerà City Of Blinding Lights. Ma è un altro disco. E un’altra storia.

Uno dei concerti del tour, quello di Boston, è uno dei contenuti speciali dell’edizione Super Deluxe della ristampa, in cd o in vinile:19 canzoni dallo Staples Center per capire che atmosfera si respirasse in quei concerti. Ma non c’è solo quello. C’è The Ground Benath Her Feet, una canzone d’amore insinuante e dolente, una delle più belle mai scritte, ispirata a un libro di Salman Rusdhie e finora inclusa solo nell’edizione inglese dell’album, e nella colonna sonora di The Million Dollar Hotel, il film di Wim Wenders scritto da Bono. È da quel disco che arriva anche Stateless, un brano liquido, soffuso, che vede gli U2 in piena libertà creativa. Un intero disco dell’edizione speciale è dedicato alle canzoni di quel periodo che non sono mai entrate nell’album. Una di queste è Levitate, che ha un suono un po’ più “sporco” rispetto ai suoni un po’ patinati, edulcorati di ATYCLB. In certe parti di chitarra, in quelle batterie pesanti, con una sorta di riverbero, si sente qualche eco di Achtung Baby. Ascoltata 20 anni dopo, suona ancora piuttosto fresca. E colpisce con quel verso, “I want a love that’s hard, hard as hate” (voglio un amore che sia duro, duro come l’odio). Sta bene in un cofanetto che racconta il periodo di All That You Can’t Leave Behind, un disco di suoni lievi, ma di sensazioni forti.

Un disco di cui, passati vent’anni, è rimasto molto. Beautiful Day e Elevation sono entrate nei classici degli U2, e sono suonate in ogni concerto. Stuck In A Moment You Can’t Get Out Of è rimasta un piccolo gioiello, ed è stata riproposta in una versione acustica, che trovate nel cofanetto. E Walk On, dopo quello che è successo, non è più legata alla leader birmana, ma è tornata a nuova vita, in una toccante versione acustica, proprio la scorsa settimana, durante l’esibizione di Bono e The Edge a una trasmissione televisiva irlandese. Vent’anni fa, in Kite, Bono raccontava già un mondo che sembrava quello di oggi, dove il rock è in secondo piano, le star dell’hip-hop sembrano raggiungere di più i gusti del grande pubblico, e la musica vive soprattutto sui social media.. “The last of the rock stars, when hip hop drove the big cars, in the time when new media was the big idea”. “L’ultima delle rockstar, quando l’hip hop guida i macchinoni, al tempo in cui in nuovi media erano la grande idea”. Bono voleva raccontare quell’epoca. Ha finito per raccontare i giorni di oggi. Dove è ancora, con i suoi U2, l’ultima delle rockstar.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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P. Diddy: Le pesanti accuse al rapper e quelle feste dove c’erano tutti…

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“Every step I take. Every move I make. Every single day, every time I pray. I’ll be missing you”. “Ogni passo io faccia, ogni mossa io compia, ogni singolo giorno, ogni volta che prego, mi mancherai”. Abbiamo conosciuto tutti Sean “Puffy” Combs, alias Puff Daddy, ora noto a tutti come P. Diddy, con quella dolcissima canzone, I’ll Be Missing You, rappata e cantata insieme a Faith Evans sulle note di Every Breath You Take dei Police. Era dedicata a un amico scomparso, il rapper Notorious B.I.G. Quel tributo, quella canzone così dolce, ci aveva fatto conoscere Sean Combs, che la interpretava di bianco vestito, sotto una luce positiva. Le notizie che arrivano dagli Stati Uniti, invece, gettano un’ombra inquietante sul rapper americano. P. Diddy è stato arrestato e si trova in un carcere di Brooklyn, New York, con accuse gravissime. È stato infatti accusato di ripetuti stupri e di traffico sessuale. Il rischio è di 15 anni di galera. O addirittura l’ergastolo. Una brutta storia, bruttissima.

Sean Combs è stato arrestato lo scorso 16 settembre mentre si trovava a Manhattan, al Park Hyatt Hotel. Il giudice non ha disposto neanche il rilascio su cauzione, perché ritiene che possa influenzare e manipolare i testimoni. Non appena il quadro ha cominciato ad essere chiaro, il ritratto che è stato fatto di P. Diddy è qualcosa di impressionante. È stato definito un predatore sessuale, un uomo che rendeva arrendevoli le sue vittime con alcool e droghe e ne abusava. Il suo status di superstar, di uomo famoso e potente, esercitava sulle vittime una sorta di timore reverenziale, che significava il silenzio, che calava su tutto ogni volta. Ma qualcuna di loro, evidentemente, ha tolto i veli su questa vicenda. Da qui è una stata una sorta di valanga. Le pagine di accusa, 14, sono destinate a crescere: finora hanno parlato 11 vittime. Thalia Graves, la più recente, ha parlato di una violenza sessuale avvenuta nel 2001 nel suo studio di registrazione, Daddy’s House. I particolari sono raccapriccianti.

Ma la storia non finisce qui. Non si tratta solo di ripetute violenze. Diddy e il suo staff avrebbero addirittura rapito delle persone, le avrebbero costrette a un “lavoro forzato”, avrebbero corrotto altra gente, provocato incendi. Oltre a girare con armi da fuoco cariche. Una pratica che, in certi ambienti musicali, è purtroppo in voga da tempo. Ma, a quanto pare risultare dalle indagini, questi comportamenti erano in atto da decenni.

Al centro di tutto ci sono le famose feste di P. Diddy, quelle che erano considerate un evento a cui non mancare, quelle a cui essere invitati era un privilegio. Quelle feste a cui tutti volevano partecipare e a cui oggi tutti negano di essere stati. Andavano in scena in grandi hotel, e venivano chiamati Freaks Off: durante questi incontri Combs avrebbe drogato le vittime e le avrebbe costrette a compiere atti sessuali prolungati con altri uomini, riprendendo tutto. Poi sono nati i White Parties, feste organizzate per i ricchi degli Hamptons. La sua idea era fondere lo stile di vita hip-hop, il suo, alle élite della East Coast americana. I ragazzi di Harlem accanto a Leonardo Di Caprio. Tutti sullo stesso piano, tutti vestiti dello stesso colore.

Il punto è proprio questo. In decenni di feste, P. Diddy di sicuro non era da solo. Come ricorda Paris Hilton, a quelle feste c’erano tutti. E allora lo scandalo legato al rapper potrebbe davvero dilagare e deflagrare tra lo star system e il jet set americano. A casa Diddy pare fossero stati visti Justin Bieber, Will Smith, Diana Ross, Owen Wilson. Si parla anche di Ashton Kutcher, Megan Fox, Jay-Z, Beyoncé, Mariah Carey, Usher, Khloe e Kim Kardashian e Jennifer Lopez. Si dice che proprio J-Lo, in passato legata a P. Diddy, possa avere un ruolo importante in questi fatti, o almeno essere molto informata. E che dietro al divorzio con Ben Affleck possa esserci proprio il legame con Combs. Ma l’elenco dei partecipanti alle feste è potenzialmente sterminato. E allora chi ha partecipato a questi atti sessuali? Chi li ha favoriti? Chi, semplicemente, ha osservato, sapeva e non ha detto nulla?

Le feste andavano in scena a New York, Miami, Los Angeles e Saint-Tropez. Spesso avevano la scusa di essere eventi benefici. Spesso avevano dietro grandi brand come sponsor: servivano a lanciare linee di profumi e bevande alcoliche. P. Diddy ora è in prigione, ma pare che l’intero star system stia tremando. Potrebbe arrivare un terremoto. Oppure, come spesso accade, potrebbe anche essere messo tutto a tacere, con Combs come unico capro espiatorio.

di Maurizio Ermisino

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DE ANDRÉ – LA STORIA 25mo anniversario

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Location: Teatro Carcano – Milano
Data evento: 11 Gennaio 2024

Nell’anniversario della morte di Fabrizio de Andrè, al Tearo CARCANO di Milano, va in scena “De Andrè, la storia”, lo spettacolo-evento. De Andrè, La Storia è un vero e proprio viaggio musicale nell’universo di Fabrizio De André, il grande cantautore italiano scomparso l’11 gennaio del 1999, sempre presente nella memoria e nella cultura musicale italiana, che accompagna intere generazioni. “De André, La Storia”, è lo spettacolo sul cantautore più importante e influente della musica italiana che celebra, a 25 anni esatti dalla scomparsa, la sua opera. Lo spettacolo ha debuttato nel 2020 e, dopo una tournèè nazionale, approda a Milano, al Teatro CARCANO.

“Fabrizio De André è stato uno dei primi a portare la canzone italiana verso la modernità, ha cambiato le regole delle canzoni, ha mescolato la storia e l’intelletto con il canto popolare, il sacro e il profano, la cultura alta e bassa con una libertà di espressione senza pari – dice il direttore Musicale, Massimiliano Salani – poterne raccontare l’epopea musicale ed umana attraverso la sua musica, ma anche attrvaerso immagini e testi credo sia una grande sfida e un grande privilegio”.

Da Creuza de ma, a Non al denaro… da La buona Novella a Le nuvole, da Anime salve a l’Indiano, l’avventura musicale di De Andrè viene attraversata in uno spettacolo emotivo e coinvolgente, arricchito dalle immagini e dalle informazioni che lo rendono un vero e proprio concerto documentario.
Grazie a un grande interprete, una band eccezionale e video esclusivi, questo spettacolo ripercorre quindi quarant’anni di attività artistica di Fabrizio De André, raccontando un’epoca storica, il clima sociale e politico di un periodo, l’atmosfera e il sapore di un mondo e di come un visionario lo abbia attraversato, descrivendo magistralmente noi stessi, oggi.

La sua storia, la nostra storia.

“È una grande emozione poter lavorare e ideare uno spettacolo basato su una figura così imponente del panorama musicale e intellettuale italiano. L’arte e la musica svolgono nella vita delle persone un ruolo fondamentale, che Fabrizio ha saputo coniugare con una rara indipendenza e profondità di pensiero. Oggi De Andrè è più seguito ed amato che mai, le sue canzoni restano attuali, le nuove generazioni le assorbono e rimandano sui social, negli eventi.
Stiamo ricevendo un caloroso riscontro riguardo agli spettacoli che abbiamo in programma.
Abbiamo voluto dedicare questo spettacolo a un musicista e poeta visionario, proseguendo una ricerca che portiamo avanti dal 2003. Questo evento non è solo un modo per ascoltare i brani di Fabrizio ma anche una possibilità di celebrare la sua influenza storica e la sua continua conversazione con il tempo e con la contemporaneità.” afferma il regista e produttore Emiliano Galigani.

Uno spettacolo da non perdere! I biglietti sono acquistabili online (TicketOne).

Lo spettacolo è prodotto da Stage 11: il regista, Emiliano Galigani ha già realizzato, nel 2003 lo spettacolo musicale Circo Faber, con la collaborazione della Fondazione Fabrizio de André, di Dori Ghezzi e dello storico collaboratore di De André, Pepi Morgia.

Voce: Carlo Costa
Synth, minimoog, voce: Massimiliano Salani
Chitarra acustica, nylon, bouzouki, voce: Emmanuele Modestino
Chitarra elettrica, chitarra acustica, berimbeau, guitalele: Giacomo Dell’Immagine
Basso: Luca Santangeli
Flauto: Eanda Lutaj
Batteria: Alessandro Matteucci

Regia: Emiliano Galigani
Video: Domenico Zazzara
Prodotto da: Federica Moretti, Simone Giusti
Per Stage11

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Pronto, Raffaella?… ci mancherai!

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Raffaella Carrà ci ha lasciato. Senza alcun segno di preavviso, in silenzio. La notizia è arrivata come un colpo a ciel sereno, totalmente inattesa. Aveva tenuto nascosta la sua malattia, probabilmente per non intaccherà quel senso di gioia, freschezza, libertà ed eterna giovinezza che la sua figura pubblica portava con sé, agli occhi di tutti, nell’immaginario collettivo, italiano ed internazionale.

E’ soltanto di qualche mese fa, del novembre 2020, l’articolo del Guardian che la incoronava “icona culturale che ha rivoluzionato l’intrattenimento italiano e ha insegnato all’Europa la gioia del sesso”. Parole che descrivono perfettamente ciò che Raffaella ha rappresentato per la società italiana e non solo, il ruolo fondamentale del suo personaggio, che ha saputo rompere tabù, creare e anticipare tendenze, sdoganare pregiudizi, giocare divertita su sessualità e sensualità.

La sua forza era la naturalezza. Quella naturalezza che l’ha spinta ad affrontare con caparbietà e disincanto dei tempi che stentavano a cambiare. Negli anni Sessanta-Settanta appariva, soprattutto agli occhi conservatori e benpensati, come una provocatrice scandalosa. Ma era “semplicemente” una donna che riusciva a spingere il suo sguardo oltre gli schemi sociali dell’epoca, senza paura dei giudizi, senza timore della censura.

Soubrette per eccellenza, nel senso più nobile del termine – non come lo si intende oggi… –, Raffaella Carrà è stata un’artista poliedrica, capace di cantare, ballare, recitare, condurre, stando alla pari con tutti, se non un passo, anzi dieci, avanti. Amata da tutti e da tutte le generazioni che ha toccato con la sua irrefrenabile simpatia e la sua dolce sensualità, negli anni non ha mai smesso di reinventarsi, di sperimentare, di mettersi in gioco.

Pochi lo ricordano, ma ha iniziato come attrice, diplomandosi al Centro Sperimentale di Cinematografia e recitando per tanti registi, da Carlo Lizzani a Mario Mattoli, da Mario Monicelli a Steno, e poi è esplosa in televisione rendendo il suo caschetto biondo, insieme ai suoi vestiti attillati e coloratissimi, un vero simbolo di libertà e sfrontatezza.

Ha lavorato e duettato con i più grandi dello spettacolo italiano, da Corrado ad Alberto Sordi, da Alighiero Noschese a Renato Zero, soltanto per citarne alcuni, e poi ha travalicato i nostri confini, conquistando le vette delle classifiche internazionali con le sue canzoni, diventate ormai immortali. E’ stato il “primo ombelico” del piccolo schermo, scandalizzando l’opinione pubblica, ha fatto innervosire il Vaticano con il suo “Tuca Tuca”, la sua discografia è ancora oggi l’inno per eccellenza dell’amore libero, del divertimento senza freni. “Tanti auguri”, “Ballo ballo”, “Fiesta”, “Rumore” sono soltanto alcuni dei titoli che negli anni sono diventati la colonna sonora dell’appagamento, della felicità, facendo ballare e conquistando il mondo intero.

Una colonna sonora che sicuramente continuerà a cadenzare anche le prossime generazioni, con i suoi ritmi coinvolgenti e i suoi testi semplici ma unici. Esattamente come lei, come la stessa Raffaella, inimitabile icona pop, che con una “carrambata”, una risata, un balletto, è riuscita con tenerezza ed esplosività ad appassionare, divertire, coccolare il suo pubblico, ad entrare nelle nostre case, a farsi considerare una di famiglia. Da tutti. “Pronto, Raffaella?”, ci mancherai…

di Antonio Valerio Spera per DailyMood.it

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