Connect with us

Cine Mood

No Time To Die. L’ultima volta di Daniel Craig, un Bond ironico e commovente

Published

on

“We Have All The Time In The World”. Vuol dire “abbiamo tutto il tempo che c’è al mondo”. Lo dice James Bond (Daniel Craig) a Madeleine Swann (Lèa Seydoux), mentre, innamorati, stanno viaggiando in macchina. È una delle prime sequenze di No Time To Die, l’attesissimo nuovo film della saga di James Bond, l’Agente 007, che arriva finalmente al cinema il 30 settembre 2021. “Abbiamo tutto il tempo che c’è al mondo” è la frase che due persone che si amano, e sentono di avere tutta la vita davanti, si dicono in certe occasioni. Ma We Have All The Time In The World è anche la famosa canzone di Louis Armstrong che chiudeva Al servizio segreto di Sua Maestà, il film del 1969, e che qui apre e chiude il film. No Time To Die, il film che conclude l’era di Daniel Craig come Agente 007, deve molto a quella pellicola, come l’intero ciclo con l’amato attore.

Al servizio segreto di Sua Maestà è stato uno dei Bond Movie più particolari, Quello che, per la prima volta, vedeva un Bond innamorato veramente di una donna, tanto da sposarla. Fino all’amaro finale. Non sono sposati James e Madeleine, ma è come se lo fossero. Sono innamorati, vivono insieme, e hanno in progetto di farlo a lungo. Arrivati in un paese dell’Italia (è Matera, con alcune scene che sono state girate a Gravina in Puglia), una volta a letto, i due cominciano a parlare. “A cosa pensavi, prima, al mare?” chiede Bond alla sua compagna. “Te lo dirò se mi parli di Vesper”, risponde lei. James Bond è lì per lasciare definitivamente andare il suo primo amore, per visitare la sua tomba all’acropoli, e chiudere per sempre con lei. È qui che, però, accade qualcosa. Cinque anni dopo, James Bond e Madeleine Swann non sono più insieme. Dietro c’è il peso di un tradimento che si è consumato in quei giorni in Italia. Ma è stato davvero così? Mentre a Londra un’arma batteriologica viene rubata da un laboratorio segreto dell’MI6, Bond è in Giamaica, dove si è ritirato lontano da tutto. Il suo amico Felix Leiter (Jeffrey Wright) e una donna di nome Nomi (Lashana Lynch) gli portano un messaggio che lo convince a tornare in pista.

Madeleine, Nomi. Ma ci sono anche Paloma (Ana De Armas), e Eve Moneypenny (Naomie Harris). Sono tutte donne. Le donne, lo sappiamo, ci sono sempre state nei film di James Bond. Le chiamavano Bond Girl. E si innamoravano di lui, o tentavano di ucciderlo, O a volte entrambe le cose. Ma qui siamo nel 2021, nell’era del #metoo e di un nuovo modo di intendere le donne. Anche un personaggio misogino e sessista come James Bond è cambiato: non lo ha fatto di colpo, ma con un’evoluzione, un percorso di crescita che, lungo tutti i film di Daniel Craig, è stata costante. Ma qui è tutto più evidente. Le prime due donne con cui James Bond viene a contatto non cadono ai suoi piedi né tra le sue braccia. Il tutto è raccontato con ironia, con Bond stesso, sorpreso o restio, che equivoca divertito. Nomi – che scopriremo essere il nuovo 007, l’agente con licenza di uccidere – e Paloma – un’agente d’appoggio cubana, impacciata e irresistibile – non sono più Bond Girl, oggetti di seduzione e pericolo. Sono a tutti gli effetti degli agenti operativi, sono al suo livello, sono accanto a lui. Eve Moneypenny è una sincera amica e fedele complice, senza complicazioni sentimentali o giochi di seduzione. E Madeleine è una donna di cui si innamora e per cui è disposto anche ad andare oltre dubbi e segreti, in un’unità di intenti che non ha precedenti nella storia di Bond. Per l’Agente 007, in questo film, c’è solo lei. Tutto questo è un cambio di prospettiva interessante, e fondamentale per raccontare i tempi che stiamo vivendo.

I nostri tempi sono anche quelli in cui “è difficile distinguere i buoni dai cattivi”. Sono gli anni del terrorismo senza nazione e senza bandiere, dei pirati informatici, del traffico di dati. Dare un volto o una casa al nemico è sempre più difficile. No Time To Die, come gli altri film di Craig, racconta bene tutto questo. E continua a raccontarci un mondo dove Bond è molto simile ai suoi nemici: in fondo fanno tutti lo stesso lavoro, quello di uccidere le persone. No Time To Die, come Skyfall e Spectre, ci mostra i villain non così distanti dall’agente che dà loro la caccia. Nel nuovo corso di 007, Blofeld e Bond sono come Joker e Batman ne Il cavaliere oscuro, due facce della stessa medaglia. E anche Safin, il cattivo di No Time To Die che evoca il Dr. No, il villain del primissimo Bond, Licenza di uccidere, vede le cose in questo modo. Ma starà a Bond smentire tutto questo con i fatti. E con le sue scelte. Se il Blofeld di Christoph Waltz agisce da dietro le sbarre, come l’Hannibal Lecter de Il silenzio degli innocenti, Safin è interpretato da Rami Malek, che crea un villain dal volto sfigurato, la voce bassa e inespressiva, gli occhi sbarrati, fissi. Un’interpretazione notevole e funzionale al film.

Ma, che sia stato Safin a costruire la minaccia o meno, quello che conta è che in questa storia la morte è qualcosa che, per diffondersi, passa attraverso il corpo delle persone, e, anche se non danneggia loro, può uccidere gli altri, chi ci viene a contatto. L’arma del progetto Heracles è a tutti gli effetti come un virus, in grado di diffondersi a grande velocità attraverso i nostri corpi. E il fatto che No Time To Die sia stato scritto ormai parecchi anni fa, prima della pandemia, non fa che accrescerne la sua attualità, il suo valore come segno dei tempi. No Time To Die è un film a suo modo profetico.

No Time To Die è il finale perfetto per la saga del Bond di Daniel Craig, iniziata nel 2006 con Casino Royale e proseguita con Quantum Of Solace, Skyfall e Spectre. È un film che completa gli altri – e in questo senso è mirabile per come collega tutti i tasselli – e se ne discosta, sorprendendo da tanti punti di vista. È un film che per tutta la prima parte punta a confondere, spiazzare, a ribaltare le carte, come in un episodio di Mission: Impossible. Ma poi, man mano che procede, diventa più intenso e appassionante. La vera tensione è tutta interiore, tutta psicologica. C’è in ballo qualcosa di più della missione, qualcosa che si interseca con essa, e rende a Bond tutto più complicato, Ma gli dà un motivo in più per portare a termine la sua missione.

La chiave del successo dei Bond Movie dell’era Craig è stato guardare James Bond da dentro, mentre tutti i Bond, prima, erano visti da fuori. Erano l’estetica, lo smoking, il vodka Martini, la Walther Ppk, il Dom Perignon. La scelta vincente di film come Skyfall e No Time To Die è riuscire a trovare il pericolo, il dolore, i fantasmi dentro James Bond, o in chi è vicino a lui. In questo modo tutto diventa più intenso. Rispetto ad altri film, No Time To Die punta meno a creare scene madri ad alto tasso estetico (ma l’azione è comunque tanta, e riuscita) e lavora molto sulle psicologie dei personaggi, sui loro legami, sugli affetti. We Have All The Time in The World torna qui proprio per questo, per ricordarci che un Bond innamorato è fragile e in pericolo. Ed è in pericolo la persona che ama.

Dopo aver spogliato di tutto – il glamour e tutti gli orpelli – il mondo di 007 all’inizio dell’era Craig, gli sceneggiatori hanno man mano reintrodotto molti degli elementi del Bond classico (Moneypenny, lo studio di M, l’Aston Martin, la Spectre) e qui, alla fine, hanno completato l’operazione aggiungendo un altro marchio di fabbrica: l’ironia. È quella più fredda e secca del Bond di Connery piuttosto che quella di Moore e Brosnan. Ma è un elemento nuovo in questo ciclo, e serve a stemperare il cuore intimo e doloroso del film. No Time To Die è un film commovente, e non ci era capitato mai, o quasi, di definire così un Bond Movie. Daniel Craig ci saluta nel migliore dei modi. E ci ricorda, come scriveva Jack London, che “la funzione di un uomo è vivere, non esistere”. Il James Bond di Daniel Craig i suoi anni li ha vissuti davvero. Ma il messaggio è anche per noi. Quello di vivere intensamente la nostra vita, anche se pensiamo di avere tutto il tempo del mondo.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

Questo slideshow richiede JavaScript.

0 Users (0 voti)
Criterion 10
What people say... Leave your rating
Ordina per:

Sii il primo a lasciare una recensione.

User Avatar
Verificato
{{{ review.rating_title }}}
{{{review.rating_comment | nl2br}}}

Di Più
{{ pageNumber+1 }}
Leave your rating

Il tuo browser non supporta il caricamento delle immagini. Scegline uno più moderno.

Continue Reading
Advertisement
Click to comment

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

due × tre =

Cine Mood

This Time Next Year: Una commedia romantica inglese di quelle che amiamo

Published

on

Commedia romantica inglese. Bastano queste tre parole magiche per definire This Time Next Year di Nick Moore, tratto dal bestseller di Sophie Cousens, al cinema dal 14 novembre, distribuita da Notorious Pictures. Bastano anche le prime immagini che scorrono sullo schermo a portarci subito dentro la storia: una Londra da sogno, illuminata per le Feste di Natale. È la vigilia di Capodanno e la nostra protagonista, Minnie, sta uscendo per andare a una festa. Ma, ogni cosa sembra andarle storto: resta ferma in un tunnel con la metropolitana, arriva alla festa e qualcuno, ubriaco, le vomita addosso. E, come se non bastasse, resta chiusa nel bagno del locale. Passerà la notte di Capodanno lì. Forse è un po’ sfortunata.
This Time Next Year è la storia di Minnie e Quinn, nati il giorno di Capodanno nello stesso ospedale a pochi minuti di distanza. Quinn doveva in realtà essere il nome di Minnie, un nome portafortuna. Ma la mamma di Quinn, nato prima di lei, decise di mettere al suo bambino quel nome. E fu lei a vincere il ricco premio per il primo nato dell’anno. Le vite di Minnie e Quinn prendono direzioni opposte, ma nel giorno del loro trentesimo compleanno si incontrano casualmente proprio a quella festa di Capodanno. Quinn è un affascinante imprenditore che sembra avere tutto dalla vita. Minnie è sull’orlo di perdere la casa e la sua pasticceria. Tra di loro c’è intesa, appaiono perfetti l’uno per l’altra, ma Minnie fa di tutto per non innamorarsi di lui.

Vedi This Time Next Year e ti passano davanti tante commedie romantiche del tuo cuore: Love Actually, Sliding Doors, Notting Hill e Last Christmas, What’s Love Got To Do With It, tutte ambientate a Londra. Ma anche un po’ Serendipity, anche se in quel caso eravamo a New York, proprio per quel senso di destino che unisce i due protagonisti. Alcuni modelli di commedia romantica non sono citati a caso. Il regista, Nick Moore, è stato il montatore di Love Actually e Notting Hill. Sliding Doors e Serendipity, invece, sono vicine a questo film perché è una storia di coincidenze, sorprese e seconde opportunità, che esplora con ironia il ruolo del destino nelle nostre vite. A proposito di Sliding Doors, nel ruolo del padre di Minnie c’è John Hannah, che era l’uomo che faceva innamorare Gwyneth Paltrow in quel film. Con i capelli e la barba bianca, è sempre affascinante e perfetto per il ruolo di un uomo dolce. Ma vuol dire anche che ne è passato di tempo… I protagonisti sono Lucien Laviscount, visto in Emily in Paris, aitante ed empatico e Sophie Cookson, nota per Kingsman: Secret Service, una bellezza minuta e insolita.

This Time Next Year è gradevole, ben scritto e ben recitato. Ci sono quei personaggi di contorno disegnati con cura, e recitati altrettanto bene, che sono uno dei plus di certe commedie inglesi. Come ha dichiarato il regista, il film si ispira alle grandi commedie della Working Title (quasi tutti i film di cui stiamo parlando). Ma questa non è un film della Working Title, e nel frattempo i tempi sono cambiati. This Time Next Year è un film meno sognante, meno brillante e scoppiettante. È più riflessivo e intimo, e con dentro più vita reale. I personaggi sono alle prese con dei problemi personali ed economici più marcati rispetto al solito. Per una volta, più che personaggi ci sembrano persone.

This Time Next Year è un film su un amore che non scatta subito ma si prende tutto il suo tempo – e anche questo è in controtendenza con tante storie a cui siamo abituati – per esplodere. Un amore frenato per storie che vengono dal passato, per la paura di fare del male, per la paura di essere ancora delusi. Prima dell’amore c’è l’amicizia, la delusione, la sorpresa. C’è una storyline parallela, dedicata all’amicizia delle madri dei due protagonisti, che è piuttosto originale per un film di questo tipo. E ci sono le immancabili citazioni, da uno Star Wars che sta bene ovunque a Insonnia d’amore, perché ogni commedia romantica che si rispetti ha bisogno di quell’incontro al quale non si può mancare. A maggior ragione se è scritto nel destino.

di Maurizio Ermisino

Questo slideshow richiede JavaScript.

0 Users (0 voti)
Criterion 10
What people say... Leave your rating
Ordina per:

Sii il primo a lasciare una recensione.

User Avatar
Verificato
{{{ review.rating_title }}}
{{{review.rating_comment | nl2br}}}

Di Più
{{ pageNumber+1 }}
Leave your rating

Il tuo browser non supporta il caricamento delle immagini. Scegline uno più moderno.

Continue Reading

Cine Mood

We Live In Time – Tutto il tempo che abbiamo: Florence Pugh e Andrew Garfield nella storia d’amore dell’anno

Published

on

We Live In Time significa “viviamo nel tempo”, “noi viviamo attraverso il tempo”. Una frase che potete interpretare in molti modi. Lasciamo a voi farlo, dopo aver visto We Live In Time – Tutto il tempo che abbiamo di John Crowley, con Florence Pugh e Andrew Garfield, presentato alla Festa del Cinema di Roma e in uscita nelle sale dal 28 novembre, distribuito da Lucky Red. Di certo in quel “we live in time” c’è anche una dichiarazione d’intenti che riguarda la forma narrativa del film, una delle cose che lo rende particolare. La storia di Almut e Tobias sarebbe una delle tante commedie romantiche commoventi, e anche divertenti, se non fosse che sul racconto incide un elemento fondamentale: il tempo. Le chiamano dramedy, oggi, ma a noi piace chiamarle tragicommedie, perché dentro portano sorrisi e lacrime, alti e bassi. Sono come la vita.

La storia è semplice, ma è bene non dire molto. Almut (Florence Pugh) è una chef stellata che sta per aprire un suo ristorante. Una notte conosce Tobias (Andrew Garfield), in un modo piuttosto particolare: lo investe con l’auto mentre lui sta attraversando la strada. Era appena uscito dalla sua stanza d’albergo per comprare delle penne: doveva firmare i documenti del divorzio. Ma della storia vi abbiamo già detto troppo.

Sì, perché la scena del loro incontro arriva dopo qualche decina di minuti del film, e potrebbe anche essere una sorpresa. La storia era iniziata infatti in medias res, con Almut e Tobias che sono già innamorati e vivono insieme. We Live In Time farà sempre così: salterà avanti e indietro nel tempo, ci racconterà la vita dei due innamorati così come l’hanno vissuta, solo montando gli avvenimenti in modo non lineare. Quando parliamo dell’elemento tempo, allora, non parliamo dei viaggi nel tempo di tante commedie (Questione di tempo, Ricomincio da capo, Palm Springs), ma solamente di un modo di raccontare la storia.

Le tappe fatidiche di una storia d’amore, allora, si accavallano l’una all’altra, e la cosa indubbiamente dà movimento al film. Primo, perché tiene desta l’attenzione dello spettatore, che non riesce immediatamente a capire a che punto della storia si trova, visto che i cambiamenti fisici dei personaggi a volte ci sono, a volte no, a volte sono impercettibili. Posizionare le carte degli avvenimenti – un po’ come le carte degli imprevisti sulla tabella del Monopoli – permette poi agli autori di svelare i fatti un po’ a loro piacimento, tenendo così sulla corda lo spettatore, e cercando di stupirlo, svelando le cose a poco a poco. E lo spettatore, va detto, sta al gioco volentieri.

Ma è probabile che la scelta non sia solo un fatto di vivacità narrativa. È possibile che John Crowley e Nick Payne, autore dello script, con questa struttura abbiano voluto dirci qualcos’altro. We Live In Time è questione di presente e passato, di fatti e di ricordi. E quando, a un certo punto, ricordiamo quello che è successo, lo ricordiamo a sprazzi, per flash, per scene, non certo con la storia completa, non certo come se leggessimo un libro stampato o vedessimo un film. We Live In Time potrebbe essere questo, lo sguardo verso la vita di chi ricorda alcuni momenti e li rivive così, in modo sparso, seguendo le emozioni. Ma questo correre sfrenato del tempo vuole anche dirci che il tempo che abbiamo non è abbastanza, per cui la vita va vissuta in modo pieno.

We Live In Time in questo modo colpisce di più, perché gioie e dolori, litigate e passione, nuvole e sole si affastellano, si rincorrono, lottano l’una contro l’altra interrompendosi di continuo. In questo modo ogni emozione diventa più forte e contrasta con le altre, come in una doccia scozzese: perché questi momenti, messi uno accanto all’altro, risaltano di più. E noti anche di più la bravura degli attori. Perché vedi diversi lati del loro personaggio, del loro mood, messi improvvisamente uno di fila all’altro.

Gli attori sono sicuramente un punto di forza di un film bellissimo, scritto benissimo partendo proprio dai personaggi. Come spesso accade nei racconti di oggi, c’è un ribaltamento: Tobias, Andrew Garfield, è più romantico, timido, impacciato (è stato Peter Parker, ricordiamolo), ha molte caratteristiche che si è soliti associare ai personaggi femminili. Per contro, la Almut di Florence Pugh è più scontrosa, sboccata, concreta e attiva, meno romantica e più pratica. Sono personaggi di finzione, ma scritti così bene che potrebbero essere veri.

Gli attori si gettano con tutta l’anima in questa storia. Garfield con i suoi modi gentili e la sua bellezza elegante, Florence Pugh con la sua bellezza insolita e sfrontata, e la sua naturale carica erotica. La sensualità, la forza di certe scene di passione è una novità in un genere come la commedia romantica, ed è un altro tocco in più che ci fa entrare ancora di più nella storia. We Live In Time è una delle storie d’amore più belle dell’anno. Ed è uno di quei film che, probabilmente, resteranno nel tempo.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

Questo slideshow richiede JavaScript.

 

0 Users (0 voti)
Criterion 10
What people say... Leave your rating
Ordina per:

Sii il primo a lasciare una recensione.

User Avatar
Verificato
{{{ review.rating_title }}}
{{{review.rating_comment | nl2br}}}

Di Più
{{ pageNumber+1 }}
Leave your rating

Il tuo browser non supporta il caricamento delle immagini. Scegline uno più moderno.

Continue Reading

Cine Mood

The Substance: Demi Moore e Margaret Qualley, la bellezza è un (body) horror

Published

on

Hai mai sognato una versione migliore di te? Sarai sempre tu, ma più giovane, più bella, più forte. In una parola: perfetta. Chi non vorrebbe una soluzione del genere? Sì, ma a che prezzo? Il caro, vecchio “patto con il Diavolo” ritorna in The Substance, il film di Coralie Fargeat con Demi Moore e Margaret Qualley che ha scioccato il Festival di Cannes e arriva nelle nostre sale il 30 ottobre, dopo un passaggio alla Festa del Cinema di Roma e alcune anteprime dal 18 ottobre. The Substance è un body horror che riprende la lezione di David Cronenberg e la reinventa in un film pop, patinato, ironico e tagliente, con un finale che porta tutto all’eccesso. È un film per stomaci forti, ma da vedere. Coglie infatti il senso dei tempi che stiamo vivendo.

Elisabeth (Demi Moore) è un’attrice sui sessant’anni con una stella sulla Walk Of Fame (attenzione alla prima e all’ultima scena). Come aveva fatto a suo tempo Jane Fonda è una star del fitness in tv. Ogni mattina fa il suo programma di aerobica, visto da molte persone. Il proprietario dell’emittente, però, decide che Elisabeth è ormai troppo anziana: vuole qualcuno di più giovane e di più sexy. L’attrice, dopo un’incidente, viene ricoverata in ospedale. Prima delle dimissioni, un giovane medico le dà una chiavetta USB. Dentro c’è la risposta ai suoi problemi: la pubblicità una sostanza che, iniettata nel modo giusto, darà vita a una nuova lei. Che nasce da un taglio sulla schiena, per partenogenesi. E così ecco Sue (Margaret Qualley) che diventa la nuova star del programma di fitness, Pump It Up. C’è solo una regola da seguire: le due sono la stessa persona, per cui devono “vivere” una settimana a testa e alternarsi. Altrimenti…

The Substance rilegge in chiave moderna e “medica” il mito del Faust, del fantomatico “patto con il Diavolo” che è sempre stato un classico del racconto sulla natura umana. Ma Sue ed Elisabeth sono anche Dorian Gray e il suo ritratto, solo che il ritratto stavolta è vivo. Sono Eva contro Eva, ma stavolta sono la stessa persona. The Substance è una metafora che coglie molte delle situazioni della nostra epoca. Dall’ossessione per la giovinezza, che da anni ormai si rivela nel continuo ricorso alla chirurgia estetica. Ma anche per l’attenzione spasmodica alla nostra immagine: pensiamo ai social, e agli altri noi stessi che promuoviamo su quegli schermi, più giovani, più belli, più felici e di successo.

Coralie Fargeat per raccontarci tutto questo ci trascina in un vortice di colori e di sensualità. I colori sono quelli accesi e brillanti degli anni Ottanta, gli anni in cui l’attenzione per il corpo e per l’immagine che viviamo oggi è iniziata. Le inquadrature sul corpo femminile, su certi particolari del corpo, sono insistite, decise, volutamente voyeuristiche. Coralie Fargeat riprende i codici di una certa comunicazione visiva sessista e maschilista per veicolare in maniera più efficace e diretta il suo messaggio. Il sessismo è messo chiaramente alla berlina (il personaggio del tycoon, Dennis Quaid, è raffigurato come un essere laido e vorace). E il gioco delle inquadrature è talmente insistito e dichiarato da rendere tutto palesemente ironico e grottesco. Tanto più che a inquadrare i corpi c’è una donna.

Nel mondo di Sue ogni inquadratura è in pratica uno spot: le labbra glossate che incontrano una lattina sono la pubblicità della Coca-Cola, le inquadrature sul fondoschiena sembrano quelle di un marchio di intimo, quelle in cui è in scena con tutine attillate e minimali sembra quella dei costumi da bagno, o un numero di Sports Illustrated.

Coralie Fargeat riprende la lezione dei grandi del cinema per dare vita a un film che comunque è molto originale. Il legame più diretto è quello con il padre del body horror, David Cronenberg, da Videodrome a La mosca fino a eXistenZ. Ma c’è anche il David Lynch di Mulholland Drive, caustico e critico verso il sogno americano di Hollywood, con le sue palme luminose e ingannevoli, e quelle sequenze all’aperto cariche di ansia e attesa. Ma c’è anche Darren Aronofsky, man mano che il film avanza, con quei gesti ossessivo-compulsivi di Requiem For A Dream. Quello che la Fargeat non ha di questi autori è la misura: un regista come David Cronenberg, pur nelle sue mutazioni orrorifiche, ha sempre mantenuto un certo controllo, una sua freddezza quasi geometrica, e non è mai andato oltre il necessario. Caroline Fargeat, nel finale, opta per un tono grottesco e grandguignolesco che nel messaggio del film ci sta. Ma ci era piaciuto però di più il tono dei primi tre quarti del film, più ironico.

The Substance è comunque un gran film, che non sarebbe lo stesso senza Demi Moore. È un film sul corpo e il suo corpo è in scena dall’inizio alla fine. Demi Moore è estremamente coraggiosa. Si mette a nudo, letteralmente e metaforicamente. Letteralmente, perché il suo corpo, con le sue imperfezioni e la sua innegabile bellezza nonostante l’età, con i segni del tempo e anche quelli della chirurgia, è il centro e il cuore pulsante del film. Ma Demi Moore si mette a nudo anche metaforicamente. Perché il tempo che passa per un’attrice, il vedersi rimpiazzata in certi ruoli da sex symbol che un tempo erano suoi, il proprio corpo che cambia e, insieme ad esso, il proprio ruolo nel mondo e nello star system, sono cose che l’hanno riguardata e la riguardano. Interpretando Elisabeth Demi Moore avrà sicuramente messo in scena le proprie paure, le proprie debolezze, le proprie ferite. Dall’altro lato dello specchio c’è quello che era Demi Moore 30 anni fa, ovvero Margaret Qualley, attrice in ascesa, coraggiosa e in cerca di continue sfide come lo era lei. Eva contro Eva, ma nella stessa persona. Che è anche un modo per dire che spesso il nostro peggior nemico siamo noi stessi.

di Maurizio Ermisino

Questo slideshow richiede JavaScript.

0 Users (0 voti)
Criterion 10
What people say... Leave your rating
Ordina per:

Sii il primo a lasciare una recensione.

User Avatar
Verificato
{{{ review.rating_title }}}
{{{review.rating_comment | nl2br}}}

Di Più
{{ pageNumber+1 }}
Leave your rating

Il tuo browser non supporta il caricamento delle immagini. Scegline uno più moderno.

Continue Reading

Trending