“I can′t believe the news today. Oh, I can’t close my eyes and make it go away”. “Non riesco a credere alle notizie di oggi. Oh, non posso chiudere gli occhi e farle sparire”. Le parole di Sunday Bloody Sunday degli U2 ci vengono in mente spesso durante Belfast, l’abbagliante film di Kenneth Branagh, finalmente in uscita nelle sale italiane dal 24 febbraio, e candidato a sette premi Oscar. Quella raccontata da Kenneth Branagh è un’altra storia, certo, ma è intrisa di quelle atmosfere, di quelle scena dei troubles, la guerra in tempo di pace, che, ascoltate, immaginate e viste tante volte, nelle canzoni e nei film, abbiamo in qualche modo assimilato, reso nostre. Atmosfere che abbiamo fatto sedimentare dentro di noi e fatte diventare immaginario collettivo. Le auto che diventano bombe e saltano in aria, le barricate di legno e filo spinato che dividono in due le strade. “And it’s true we are immune. When fact is fiction and TV reality”. “Ed è vero noi siamo immuni Quando i fatti sono finzione e la TV è la realtà”. Vediamo spesso i protagonisti di Belfast guardare quello che accade nelle strade nei notiziari della tv, attoniti e spaventati. Eppure Belfast non è solo questo. è l’Irlanda del Nord raccontata attraverso gli occhi incantati di un bambino, Buddy, che è il piccolo Kenneth Branagh, è il ricordo che, come diceva Giacomo Leopardi, rende tutto più dolce, anche quello che era amaro. Belfast è la realtà filtrata dal sogno, in uno scintillante bianco e nero. È puro cinema. Impossibile resistergli.
Belfast, Irlanda del Nord, fine anni Sessanta. In città hanno inizio i troubles, i disordini tra cattolici e protestanti, che porteranno a una guerra civile che durerà oltre due decenni. Buddy (Jude Hill) ha nove anni e vive a Belfast insieme ai genitori (Caitriona Balfe e Jamie Dorman) e ai nonni (Judi Dench e Ciarán Hinds). Il padre è spesso fuori per lavoro, fa il manovale in Inghilterra, e la madre cerca di tenere unita la famiglia. Mentre in città la situazione sta per precipitare, e tutto diventa sempre più pericoloso, Buddy prova a vivere una vita serena, tra la scuola e le corse con gli amici per la strada in calzoni corti. Ma comincerà a chiedersi se vale la pena di restare e rimanere. Nel frattempo trova sollievo al cinema, dove quella luce magica lo porta in altri mondi, lo fa evadere dalla realtà, gli fa brillare gli occhi nel buio di una sala.
Kenneth Branagh ci racconta questa storia riprendendola con un bianco e nero contrastato e luminosissimo. È una luce quasi incantata, la sua, che lascia bagliori d’argento sui capelli di Buddy, quasi a voler accarezzare quel bambino sapendo che sì, ce la farà a superare tutto questo e a trovare la sua strada. Ma sembrano brillare nel buio anche i fuochi delle ronde notturne che cominciano ad animare le strade di Belfast, e quelli sono bagliori sinistri. E poi c’è quel cielo sopra Belfast, che nel bianco e nero di Branagh sembra ancora più nero, più grigio, plumbeo. Sembra un narratore onnisciente che osserva tutto dall’alto, immobile, senza voler o poter intervenire. Sembra essere lì con il solo compito di opprimere i personaggi.
Quel bianco e nero sembra fare due cose molto diverse fra loro, contemporaneamente. Da un lato sembra contestualizzare le immagini nella dimensione dei tempi in cui avvengono, quegli anni Sessanta in cui le notizie arrivavano dalle tivù in bianco e nero. Sembra quindi, a momenti, dare un’idea di coerenza, dare alle immagini i colori che siamo soliti associare a quei tempi. Ma, in qualche modo, quella fotografia in bianco e nero astrae quei volti e quei corpi dalla loro epoca e li rende immediatamente icone, simboli, figure che sembrano uscite da un cinema classico.
È qualcosa di strano, di miracoloso, quello che avviene in Belfast. C’è un continuo contrasto tra la crudezza di certe situazioni e l’estetica di certe inquadrature. Alcune riprese sembrano evocare il Neorealismo, mentre altre inquadrature, quelle sui volti – belli, bellissimi, fin troppo belli – sembrano quelle di un cinema classico hollywoodiano. In Belfast tutto è vero e tutto è finto. È qualcosa di difficile da spiegare, ma è così. Belfast è Storia, è vita vissuta, ma è anche cinema, è teatro con quegli edifici che sembrano veri ma un attimo dopo ci sembrano delle quinte teatrali. Guardate, ad esempio, l’ultima scena in cui quell’autobus, esce di scena scomparendo dietro a un muro. È come se fosse un sipario che si chiude, solo che il movimento lo fanno i personaggi verso il sipario e non viceversa. Ed è vero che quella mamma e quel papà sono troppo belli, ma tutti i genitori, nei ricordi di un bambino, sono bellissimi. E, nei suoi desideri, il loro amore è eterno, è un Everlasting Love.
E quando Buddy e la sua famiglia si recano in sala, i film sullo schermo e il palco del teatro sono a colori, mentre tutta la realtà è ancora in bianco e nero. È l’arte che salva la vita, è il futuro di Buddy, cioè di Kenneth Branagh, che arriva a illuminare il presente, a illuminare e colorare – letteralmente – gli occhi di chi guarda. Sullo schermo scorrono Raquel Welch, John Wayne, Grace Kelly a indicargli la via. Ed è bellissimo vedere il cinema come esperienza in sala, con la famiglia di Buddy e tutto il pubblico che si muovono all’unisono, per cadere e risalire come i personaggi sul grande schermo.
“Se loro non ti capiscono vuol dire che non ti ascoltano. È un problema loro” dice il nonno a Buddy. Ed è qualcosa che andrebbe detto a tutti i nostri bambini, perché non si preoccupino di non essere capiti. Perché chi vuole capire, capisce. Kenneth Branagh ha trovato chi lo ha capito, ha trovato la sua strada. Ma è tornato alle sue radici. E ha girato questo film per quelli che sono rimasti. Per quelli che sono partiti. E per tutti quelli che si sono persi.