“Gli uomini saggi dicono: solo gli sciocchi sono precipitosi. Ma io non posso fare a meno di innamorarmi di te. Dovrei rimanere. O sarebbe un peccato? Se non potessi fare a meno di innamorarmi di te”. Sono le parole di Can’t Help Falling In Love di Elvis Presley, una canzone che ricorre nel film Elvis di Baz Luhrmann, presentato all’ultimo Festival di Cannes e finalmente in arrivo nelle sale italiane il 22 giugno. E il tema dell’amore ritorna spesso durante il film, raccontato dalla voce narrante del colonnello Tom Parker, che di Elvis era il manager. “Vi diranno che sono il cattivo della storia” dice all’inizio, “che ho ucciso io Elvis Presley. Ma lo ha ucciso l’amore, il suo amore per voi”. Elvis era uno che sul palco si donava fino in fondo, con tutte le sue forze, con tutto il corpo. Guardatelo, impersonato da un eccezionale Austin Butler, dal suo primo al suo ultimo concerto. Dopo il quale, alla fine del film, vedrete quello vero. E non potrete fare a meno di innamorarvi di lui. Di Elvis Presley. E del film di Baz Luhrmann. E di capire come Elvis sia stato ovunque, in tutti gli artisti che l’hanno seguito. E quanto sia ancora ovunque oggi, in tutta la musica che ascoltiamo e vediamo.
In Elvis la storia del Re del Rock è vista attraverso la complicata relazione con il manager, il colonnello Tom Parker, interpretato da un Tom Hanks laido e lascivo, quasi irriconoscibile, ricoperto dal trucco prostetico. È proprio Parker il nostro anfitrione: è lui a raccontarci una storia di musica, passione e business, anche facendoci conoscere il suo punto di vista. Una storia che, tra salti temporali, dura 20 anni, dagli esordi alla fama di Presley, da Memphis a Hollywood a Las Vegas, una storia che è la perdita dell’innocenza dell’America. C’è anche il suo amore, Priscilla Presley, interpretata da Olivia DeJonge.
Baz Luhrmann è straordinario nel raffigurare Elvis. Prende un attore molto somigliante come Austin Butler, certo. Ma, a modo suo, lo forgia, lo modella come se fosse creta, e lo dipinge con i colori di Elvis Presley. Quel nero dei capelli impomatati, il ciuffo lucido e ribelle, che vive quasi di vita propria. Gli abiti, che brillano alla luce dei riflettori, come la pelle del Re, fotografata in modo da illuminare la scena, come se Elvis fosse un sole. Il ralenti, per enfatizzare, qualora non fossero evidenti, i peccaminosi movimenti del bacino. In quell’ondeggiare della stoffa dei pantaloni a quelle oscillazioni pelviche che lo hanno reso famoso, in quelle vibrazioni che arrivano fino al pubblico in estasi sotto il palco c’è il tentativo di catturare in immagini il fremito del sesso, quel senso di rivoluzione dei costumi che stava avvenendo in America in quegli anni.
È come se Luhrmann avesse preso le immagini di Elvis, e dal bianco e nero dei programmi tv, con cui tutti lo vedevano, lo avesse dipinto dei colori più carichi possibili per raccontare la rivoluzione che stava vivendo l’America. È come se avesse preso la bidimensionalità della tv, che aveva portato Elvis al pubblico di tutto il mondo, e le avesse dato profondità e tridimensionalità. E così ha preso le immagini statiche dei giornali, quotidiani e riviste, che erano i “social media” dell’epoca, e le ha rese immagini in movimento, per far capire come Elvis entrasse nella cultura e nelle vite, nel costume e nella Storia dell’America di quegli anni. E di sempre. È come se avesse fatto di Elvis una statua vivente, un monumento in movimento. Intorno a lui ci sono tutti i colori di un’America che stava letteralmente esplodendo, nel bene e nel male, in un movimento di rivoluzione sessuale e sociale, ma anche nel senso delle tensioni politiche e razziali. Le polemiche sul suo look, sui suoi movimenti, sul suo portare a tutti la musica dei neri, gli attentati a Kennedy e Martin Luther King entrano nella storia di Elvis. Che, lo avrete capito, è la storia dell’America.
Ma Elvis è un’allegoria di un conflitto che esiste da quando esiste l’arte. È quello tra il talento e la voglia di ingabbiarlo, tra l’ispirazione sfrenata e la volontà di incanalarla in qualcosa di rassicurante e conformista, tra la diversità, l’unicità e il bisogno di conformarle a qualcosa di già esistente. È il conflitto tra l’arte e il mercato, tra chi crea opere d’arte e chi tenta continuamente di tradurle a tutti i costi in guadagno, senza alcun ritegno per il fattore umano. A un certo punto della sua carriera Elvis poteva davvero avere il mondo – letteralmente, perché i suoi concerti erano richiesti ovunque, dall’Europa al Giappone – e rimase invece in America, rimase soprattutto a Las Vegas. È stata la sua gabbia dorata dove, con sotterfugi di ogni tipo, lo ha rinchiuso il colonnello Parker.
Elvis, il nuovo film di Baz Luhrmann, è tutto questo e, ovviamente, di più. Perché tutto, in Baz Luhrmann, diventa un melodramma e allo stesso tempo un musical sfrenato e sfarzoso, è ogni volta Broadway e La Scala. Nel cinema di Baz Luhrmann i lustrini e i fuochi d’artificio nascondono sempre le lacrime. Tutto, nel suo cinema, avviene in un enorme palcoscenico teatrale, ricco e ridondante. Come la Parigi di Moulin Rouge! e la New York di The Get Down qui il teatro è una Las Vegas scintillante e subdola, dove le luci e le insegne al neon nascondono inganni, dolore e solitudine. Uscirete dal film combattuti, pieni di gioia e di dolore. Ma con la convinzione che, come Elvis, non c’è stato nessuno.