In uno dei momenti topici della sua carriera, l’inno nazionale cantato al Super Bowl, Whitney Houston sceglie di non indossare alcun abito elegante, ma semplicemente una tuta da ginnastica. Bellissima, bianca, che si abbina a una fascia altrettanto candida che le cinge i capelli ricci. Ma pur sempre una tuta. È il Super Bowl, va bene così, dice lei nel film Whitney: Una Voce Diventata Leggenda, solo al cinema da giovedì 22 dicembre. Il film diretto da Kasi Lemmons vede Naomi Ackie, vincitrice del BAFTA Award e del British Independent Film Awards come miglior attrice esordiente, nei panni della famosa cantante. Ma tutto questo ci serve per dire che Whitney Houston non amava particolarmente seguire le mode. O, almeno, voleva essere lei a crearle. In una parola, voleva essere semplicemente se stessa. Voleva poter scegliere.
Per questo, in uno show business come quello degli anni Ottanta dove ogni star aveva un look preciso e ogni cambiamento era studiato ad hoc e puntualmente annunciato, il personaggio di Whitney Houston non era facile da inquadrare. La copertina del suo primo album, Whitney Houston, diventato l’album d’esordio di un artista solista più venduto fino a quel momento, vede lei con i capelli raccolti e un abito elegante e rétro color crema, un’immagine che la fa sembrare molto più adulta della sua giovanissima età. E che, comunque, rivela la natura in qualche modo classica delle sue canzoni, ballate soul romantiche in grado di liberare la sua grande voce. Ma Whitney non era quella ragazza elegante raffigurata in copertina. O, almeno, non solo. Sul retro di quella copertina, infatti, vedevamo Whitney in un costume da bagno bianco, fotografata su una spiaggia, a figura intera. E cominciavamo a intuire la sua bellezza, la sua sensualità. La copertina del secondo album, intitolato semplicemente Whitney, la vedeva ancora diversa: sbarazzina, con una canottiera bianca e un paio di jeans, i capelli più lunghi. E così, ancora più sexy, appariva nel video di I Wanna Dance With Somebody.
Questo per dire che il look di Whitney Houston ci era sempre sembrato un po’ ondivago. Nel film Whitney: Una Voce Diventata Leggenda, cominciamo a capire un po’ meglio, partendo proprio dal look, quale fosse la vita della cantante americana. Spesso non era lei a scegliere, in tante cose, tra cui proprio gli abiti. Spesso a scegliere per lei erano altri. Il padre, John Houston, avvocato, e la madre, Cissy Houston, anche lei cantante. Guardate attentamente una delle prime scene del film. Whitney è negli uffici dell’Arista, una grande casa discografica, e ha appena firmato un favoloso contratto con il boss, interpretato da Stanley Tucci. La cantante è vestita in modo molto semplice. Una felpa blu, una polo bianca sotto, e un paio di jeans, “i jeans belli”, dice lei. È così che si sente a suo agio. Il padre le dice che avrebbe dovuto mettersi un vestito, che dovrebbe essere vestita come una principessa. E che dovrebbe mettersi una parrucca. Perché con quei capelli, portati ricci e corti, non sarebbe andata da nessuna parte.
La vita di Whitney Houston è stata spesso questo, indossare un abito che non era il suo. Non solo in senso stretto. Ma anche nel senso più ampio, che vuol dire non poter essere sempre se stessa, ma chi qualcun altro ha pensato che dovresti essere. Questo vuol dire non poter stare insieme, alla luce del sole, con Robin, la donna che ha amato, e che per lei è stata amica, compagna, confidente, assistente. E dover invece frequentare dei ragazzi, come Jermaine Jackson, per non rovinare “il brand” che era diventata. Parlando con Robin, sul set del video How Will I Know (ricostruito alla perfezione), dove è vestita con un tubino color grigio argento e un grosso fiocco sui capelli, le due convengono che quella non è lei. Non è la vera Whitney. “Sono la fidanzatina d’America”, esclama Whitney. È quello che vogliono da lei. E lei lo darà loro. Ma tutto questo ha a che fare anche con la musica. La carriera di Whitney Houston è stata spesso – è così quando si deve ascoltare il discografico, il padre, la madre – accontentare più persone possibile, arrivare al pubblico più ampio. Che, in teoria, è l’obiettivo di qualunque artista. Ma in questo modo si finisce per “essere tutto per tutti”. È quello che dice Whitney Houston a un certo punto del film. Dice di essersi stancata di essere questo.
E quando si cerca di “essere tutto per tutti”, si fa una musica che provi ad arrivare a tutti. E così, a un certo punto della carriera di Whitney Houston, sono cominciate ad arrivare delle critiche. La Houston era troppo poco “nera”, a livello musicale, per essere una cantante di colore. Secondo alcuni si era “venduta”. La chiamavano “Oreo” dal nome dei biscotti neri fuori e bianchi dentro. Certo, il film lo spiega bene, Whitney Houston non scriveva le sue canzoni, le cercava tra quelle che le mandavano i tanti autori, che le suggerivano i discografici. I generi le piacevano tutti. Cercava solo delle grandi canzoni, delle “montagne alte da scalare”, in modo da far risaltare la sua voce. La sua vita, con un successo clamoroso arrivato subito, sarebbe stata una montagna da scalare in un altro senso. Ci sarebbero stati la droga, il matrimonio con Bobby Brown e le tante violenze subite, i dissidi economici con il marito e con il padre, che amministrava il suo patrimonio. Momenti dolorosi che il film tende un po’ a rimuovere, perdendo l’occasione di essere un ritratto intenso. Così restano le canzoni, e la musica. E quelle sono grandi.