Serie TV
The Marvelous Mrs. Maisel 5: Goodbye Midge, ti auguriamo una vita meravigliosa
Andrà tutto bene. Forse ricordate quando usavamo questa frase. Ma qui è qualcosa di completamente diverso. Parliamo della quinta e ultima stagione dell’amata e acclamata serie di Prime Video The Marvelous Mrs. Maisel, che torna dal 14 aprile 2023 con tre episodi seguiti da nuovi episodi ogni settimana. Sì, andrà tutto bene. Forse non tutto, certo, ma molte cose sì. La quinta stagione, con una serie di trovate che di fatto rompono con la narrazione tradizionale delle precedenti stagioni, riesce a guardare nel futuro e a dirci che la nostra amata Midge ce la farà a diventare quello che ha sempre sognato di essere. E va bene così, perché il senso profondo della serie è proprio questo, che vale in quei lontani anni Cinquanta e Sessanta come oggi. Una donna che ha ben chiaro quale è il suo talento, la sua attitudine, e quale deve essere il suo posto nel mondo ha il diritto di provare a raggiungerlo.
Dopo essersi fatta terra bruciata intorno a sé ed essere stata esclusa dal tour, Midge Maisel ha tenuto duro per tutta la quarta stagione per ricostruire la sua carriera e reputazione. Gli ultimi momenti della precedente stagione avevano visto Midge lasciare il Carnegie Hall rinfrancata e pronta ad affrontare qualsiasi tempesta di neve le venisse incontro. Dopo un’epifania di fronte al cartellone innevato del The Gordon Ford Show, Midge è pronta ad “Andare avanti” e a lottare per la sua ascesa alla fama – munita solo della sua lingua brillante e affilata e niente da perdere. Nella quinta e ultima stagione, Midge si trova più vicina che mai al successo che aveva sognato per poi scoprire che “più vicina che mai” è ancora molto lontano.
Come quel signore che si chiama Jon Landau una volta disse di aver visto il futuro del rock, e che il suo nome era Bruce Springsteen. La creatrice di The Marvelous Mrs. Maisel, Amy Sherman-Palladino (entrata nella storia della serialità ancora una volta, dopo Una mamma per amica), con un colpo di genio, e degli espedienti alla Forrest Gump, riesce a mostrarci il futuro della Signora Maisel (è così che si presenta al pubblico durante i suoi spettacoli). È importante, perché una storia motivazionale come quella a cui abbiamo assistito, una storia di crescita, di autodeterminazione di realizzazione dei propri sogni ha senso se poi fai capire che quei sogni si possono raggiungere, che si può fare. Pensateci. Una donna, nei tardi anni Cinquanta, in una famiglia ebrea di New York, che vuole lavorare. Non solo: vuole lavorare nello spettacolo. E non basta: vuole fare la stand up comedian, parlare di argomenti scomodi, come il sesso e i rapporti tra uomo e donna. E andando da sola nei locali dove si esibisce.
Non è un caso che tutto il senso di questa storia stava già nell’episodio pilota. Quello in cui Midge accompagnava il marito che aveva il vezzo di esibirsi come comico, e doveva anche cucinare la “punta di petto” per addolcire il gestore del locale e farlo esibire non troppo tardi. Ma quell’uomo il talento di far ridere non ce l’aveva per niente. E ce lo aveva lei: solo che per una donna dimostrarlo è sempre più difficile. Il punto è questo. Midge è una donna in un mondo di uomini, come recita il titolo dell’episodio 2 di questa stagione “It’s a Man, Man, Man, Man World”. E in questo senso è emblematica la scena chiave di questo episodio. È quella in cui Midge arriva nella writers’ room dello show televisivo e, pur cercandolo, non trova un posto a sedere tra i vari divani e poltrone perché sono tutti occupati e nessuno le fa spazio. Tanto che è costretta ogni volta a spostarsi, da sola, una pesante poltrona che sta di lato. Per non dire di quello che accade ogni volta che prova a prendere la parola. Questa scena (una serie di scene, che ricorrono come un tormentone, in realtà), unita alla bellissima sequenza dell’incontro/scontro con il personaggio di Milo Ventimiglia in metropolitana, dimostrano come la serie, celebrata per la sua fine scrittura, sia cresciuta molto anche a livello di messa in scena, di coreografie. Gli attori, eccezionali nel porgere le loro batture, lo sono anche nel muoversi nello spazio come dei danzatori.
La quinta stagione di The Marvelous Mrs. Maisel conferma ancora una volta la capacità di scrittura di Amy Sherman-Palladino e dall’executive producer Daniel Palladino. I loro script sono fitti di riferimenti culturali e sociali, di battute raffinatissime e di scambi da togliere il fiato. E, non dimentichiamolo, ogni episodio, o quasi, è uno spettacolo nello spettacolo: dopo aver assistito alla vita di Midge arriva il momento della sua esibizione e parte una raffica di battute che, da sola, vale quello che una volta si sarebbe detto il prezzo del biglietto. La serie ha consacrato anche il talento di Rachel Brosnahan, la protagonista, donna bellissima dagli occhi chiari come il cielo, o come il mare, fisico da pin up, e un talento e una versatilità nella recitazione uniti a tempi comici perfetti. Dopo averla vista in questa serie, e anche in ruoli drammatici, possiamo dire che d’ora in poi potrà davvero fare tutto quello che vuole. Accanto a lei ci sono Tony Shalhoub, Alex Borstein, Marin Hinkle, Michael Zegen, Kevin Pollak, Caroline Aaron, Reid Scott, Alfie Fuller e Jason Ralph. Se solo dovessimo trovare un neo in una serie che rasenta la perfezione, potremmo dire che forse ci ha messo un po’ troppo per arrivare al punto dove è arrivata (alcuni passaggi delle stagioni precedenti ci sono sembrati girare a vuoto) e il fatto che, quando Midge non è in scena, il tutto un po’ si spegne. Non è che gli altri personaggi non siano scritti e interpretati bene, è che è Midge che è troppo interessante o luminosa.
Qualche anno fa avevamo parlato con Marina Pierri, autrice dell’illuminante libro Eroine, sui personaggi femminili delle serie tv, proprio della Signora Maisel. “Quando guardo Midge vedo una donna straordinaria, un personaggio con tantissimo privilegio: riesce a fare quello che fa grazie al fatto che siede poco in basso rispetto al costrutto apicale, l’uomo bianco eterosessuale abile” ci aveva spiegato. “È una donna bellissima, molto intelligente, che può dire tutto, può viaggiare, che può permettersi di lasciare i suoi bambini a genitori e tate, può lasciare il marito. Ha ogni chance di imprimere un marchio nel mondo empirico. Non tutte le donne hanno questa fortuna”. “Midge è la creatrice perfetta” ci aveva spiegato Marina Pierri. “Ciò non toglie che sia un personaggio straordinario perché ci parla della necessità femminile di trovare la propria voce. È la Sirenetta di Andersen al contrario: una donna che dall’avere una coda di pesce, da essere molto stanziale, da essere ferma nel suo neighbourhood ricchissimo newyorchese, perde la coda e va alla ricerca. Ma, al contrario della Sirenetta, non perde la voce, ma la guadagna. È la donna che, anziché trasformarsi per amore, fa il percorso inverso, trova l’amore per se stessa, e la voce è quella che vuole trovare per se stessa”.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Adorazione: Quel buco in mezzo al cuore che si ha da giovani. Su Netflix
Published
4 ore agoon
21 Novembre 2024“Ho perso le parole. Ho un buco in mezzo al cuore. Qualcuno chiami un dottore. Un altro giorno muore”. Il timbro e il flow inconfondibili di Fabri Fibra, parole che cadono come bombe su una base rock e potente, aprono Adorazione, la serie young adult in 6 episodi liberamente tratta dall’omonimo romanzo di Alice Urciuolo, disponibile su Netflix dal 20 novembre 2024, dopo essere stata presenta ad Alice nella città, la sezione autonoma e parallela della Festa del cinema di Roma. È una serie acerba, come i suoi giovani protagonisti, ma avvolgente, ipnotica e intrigante. Sin dalle prime sequenze è impossibile non rimanerne invischiati.
L’estate è appena iniziata sulla costa dell’Agro Pontino quando la scomparsa della sedicenne Elena (Alice Lupparelli) getta un’ombra sulla piccola comunità. Data la sua natura ribelle, sia la polizia che i suoi amici pensano che si tratti dell’ennesimo tentativo di fuggire da una provincia soffocante… Ma si sbagliano. A restare sconvolta, più di ogni altro, è la sua migliore amica, Vanessa (Noemi Magagnini). Il suo non è solo dolore. Riflettere sull’amica, e su cosa le manca di lei, le fa capire molte cose su se stessa.
L’adattamento del romanzo Adorazione per la serialità è consistito in un cambiamento piuttosto netto. Come è stato raccontato ad Alice nella città, a Roma, quello che nel libro è il passato, che racconta le conseguenze dell’evento scatenante da cui parte l’intreccio un anno dopo, nel serial diventa il presente. Così Adorazione diventa un teen drama con delitto, un genere piuttosto amato e di successo sulle piattaforme di streaming, e a livello internazionale. Pensiamo al successo di Élite e, ancora prima, a quello di Riverdale.
Adorazione, però, è qualcosa di leggermente diverso. Se l’indagine sulla scomparsa o sul delitto nelle serie di cui sopra era piuttosto evidente, qui si muove accanto a un’altra indagine, che sembra essere preponderante rispetto all’altra. È quella sui desideri e sulle paure, sull’attrazione e le insicurezze, sulla crescita e sul cambiamento, sulle aspirazioni e i sogni infranti. Su quei buchi che si hanno nel cuore a sedici anni. È come se la scomparsa di Elena sia sì importante in sé, ma soprattutto perché capace di scatenare in ognuno una reazione, di tirare fuori a ciascuno le proprie contraddizioni, il non detto, l’inespresso. La scomparsa di Elena porta ogni personaggio a fare i conti con se stesso.
Ha dei difetti, Adorazione. Ma non è questo quello che conta. Quello che conta è che riesce a tirare fuori alcuni aspetti dell’adolescenza e della vita di provincia. In Adorazione si sente forte il senso del desiderio e l’impossibilità di frenarlo, quel dover essere sempre in continuo movimento, in una continua impazienza, quell’incapacità di stare fermi. È la vita che scorre dentro di noi ed è destinata ad uscire, anche se proviamo a controllarla.
Dall’altro lato si sente anche il senso di frustrazione che si prova, a quell’età, a vivere in provincia, ad essere in qualche modo confinati, senza prospettive. A vivere in un posto che si sente stretto, castrante. Ad avere un orizzonte limitato. Non è un caso che questa storia avvenga a Sabaudia, nell’Agro Pontino, come Prisma avveniva Latina. Entrambe sono storie nate dalla mente di Alice Urciuolo. L’autrice è bravissima a raccontare la vita di provincia, una provincia molto particolare, legata a dei valori arretrati, patriarcali, un luogo dove il conflitto tra apparenza e identità, tra esteriorità e desideri interiori è destinato ad esplodere.
Ed è proprio questa l’altra peculiarità di Alice Urciuolo. È eccezionale nel raccontare il viaggio della giovinezza, la formazione, il continuo movimento interiore, e anche quello esteriore che lo rispecchia. E anche le inevitabili insicurezze, paure, dubbi che ogni cambiamento porta con sé. Prisma, la bellissima serie Prime Video che non vedremo andare avanti (non è stata confermata per la terza stagione) parlava di identità in senso ampio, prima ancora che di identità di genere, e della ricerca di se stessi e del proprio posto nel mondo di un gruppo di ragazzi. Accade lo stesso anche in Adorazione. Anche se, rispetto a Prisma, è un racconto a tinte più forti. Ma questo permette anche di parlare di violenza e di relazioni tossiche. La parola “adorazione”, infatti, può avere un senso positivo, ma, vista dall’altro lato, spinta oltre un certo limite, può fare rima con “ossessione”.
A proposito di cambiamenti. È bellissima l’evoluzione che ha il personaggio di Vanessa, che, a un certo punto, finisce per somigliare fisicamente ad Elena, la sua amica scomparsa. Un modo per colmare quel vuoto, per ovviare a quella mancanza. Ma è qualcosa che avviene perché Vanessa forse non era quello che era stata finora. Elena, per ogni personaggio, aveva un significato. Una volta scomparsa, allora, diventa uno specchio in cui ognuno è costretto a guardarsi e capire davvero chi è. Come una Laura Palmer che, una volta morta, faceva venire fuori la vera natura di ognuno.
Un altro elemento importante di Adorazione è Stefano Mordini, autore nato come documentarista e passato alla regia della finzione già da vent’anni, con Provincia meccanica. Negli anni, da Acciaio (altro adattamento da un romanzo) a La scuola cattolica, ha sempre provato, con le sue immagini calde e fredde allo stesso tempo, e un approccio distaccato, ancora con l’animo del documentarista, a osservare i corpi, cogliendone l’essenza, ma senza mai voyeurismo. E a provare, quasi scientificamente, senza dare giudizi, a scandagliare l’anima dentro quei corpi.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Serie TV
Dune: Prophecy: Diecimila anni prima di Paul Atreides, su Sky e NOW
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3 giorni agoon
18 Novembre 2024“L’arma più potente dell’umanità è la menzogna”. Mentire, capire chi mente, entrare nella testa delle persone e governarla, predire il futuro. C’è tutto questo al centro di Dune: Prophecy, la nuova serie HBO Original e Sky Exclusive ambientata 10.000 anni prima dell’ascesa di Paul Atreides raccontata nei blockbuster di Denis Villeneuve. La serie, che espande l’universo di Dune creato da Frank Herbert, arriva da da lunedì 18 novembre in esclusiva su Sky e in streaming su NOW. Dune: Prophecy segue la storia di due sorelle Harkonnen mentre combattono le forze che minacciano il futuro dell’umanità e fondano la mitica setta che diventerà nota come Bene Gesserit. La storia è ispirata al romanzo Sisterhood of Dune, scritto da Brian Herbert e Kevin J. Anderson.
Dune: Prophecy è una serie che vive nel mondo di Dune: come detto siamo 10.000 anni prima della storia che abbiamo visto nel film di David Lynch del 1984 e dei due recenti film di Denis Villeneuve. È però un tipo di racconto molto diverso da quelli che abbiamo visto al cinema. C’è meno azione, meno epica, meno battaglie. E ci sono più complotti, più intrighi di palazzo. E anche più sesso esplicito. Pur restando coerente al mondo di Dune, la nuova serie sempre avvicinarsi al modello de Il Trono di Space, altro grande successo HBO diventato evidentemente un caso su cui modellare altre produzioni.
Nel cast della serie spicca la matura Emily Watson, l’attrice che tanti anni fa ci aveva fatto innamorare con Le onde del destino e con The Boxer, e che oggi ha un ruolo austero e regale, quello della madre superiora della Sorellanza, la setta che darà vita alla Bene Gesserit, le cui esponenti hanno un ruolo chiave nella saga di Dune. Gli occhi blu ghiaccio di Emily Watson sono il faro che guida il personaggio, le sue azioni e il movimento della storia.
A proposito di colori, dimenticate i toni dorati e i rossi della saga cinematografica di Dune. Quello di Dune: Prophecy è un mondo austero, quasi monocromo, che vive di varie sfumature di grigio che sfumano dal bianco al nero. Le figure, scure e austere, di quelle che diventeranno le Bene Gesserit, sono iconiche e immediatamente riconoscibili, e dettano la linea, anche estetica, del racconto. Che vive in un futuro che sa di passato, tecnologico eppure a suo modo ancestrale. A proposito: quello di Dune: Prophecy è un mondo che nasce dopo che gli umani hanno bandito le macchine pensanti, cioè le intelligenze artificiali, dopo averle sconfitte. Anche questo è un motivo di riflessione.
Così come fa riflettere una tendenza in atto nel mercato dell’intrattenimento, quella che punta alla creazione di universi espansi che vivono su media differenti, e con stili differenti. Prima di tutti lo aveva fatto il mondo di Star Wars, prima ancora di finire sotto l’egida Disney, con le serie animate che completavano il mondo dei film, che allora era fermo alle prime due trilogie. Lo ha fatto la Marvel, che con le serie su Disney+ ha arricchito e completato la narrazione del Marvel Cinematic Universe. Lo sta facendo in modo interessante la Warner / HBO: prima con The Penguin, serie tv che vive nel mondo del nuovo Batman di Matt Reeves. Ora con questo Dune: Prophecy che espande l’universo di Dune. La cosa interessante è che la serie non necessariamente ha lo stile del film: The Penguin, più che un cinecomic, è un gangster movie declinato in serie. E Dune: Prophecy, come detto, non è il classico film di fantascienza ma più una sorta di fantasy alla Game Of Thrones. Si tratta di serie da vedere non solo per il piacere di farlo, ma anche per capire dove sta andando la serialità in questa era.
di Maurizio Ermisino
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Serie TV
La legge di Lidia Poët 2: Matilda De Angelis, eroina di ieri e di oggi. Su Netflix
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3 settimane agoon
30 Ottobre 2024Il suo nome è Poët, Lidia Poët. Si chiama La legge di Lidia Poët la serie dedicata a questo personaggio che arriva su Netflix dal 30 ottobre 2024, e che è stata presentata ad Alice nella città, la sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma. Ma ci piace introdurla così perché Lidia, la prima donna in Italia ad entrare nell’Ordine degli Avvocati, nella finzione creata da Matteo Rovere, diventa un personaggio da storia crime, un’investigatrice in grado di risolvere gli enigmi più complicati. La seconda stagione de La legge di Lidia Poët è attesissima: la serie, vincitrice con la prima stagione ai Nastri d’Argento Grandi Serie 2023 del premio Miglior Serie ‘Crime’, è anche la serie italiana Netflix più vista nel mondo. È prodotta da Matteo e Groenlandia, società del Gruppo Banijay, e creata da Guido Iuculano e Davide Orsini. Alla regia ci sono lo stesso Rovere, Letizia Lamartire e Pippo Mezzapesa.
A Lidia non è permesso di fare l’avvocato per una legge scritta dagli uomini. Perciò questa volta punta ancora più in alto, vuole cambiare la legge. Mentre continua a collaborare con il fratello Enrico, affrontando nuovi casi e battendosi per i diritti delle donne, vuole convincerlo a candidarsi in Parlamento per far sì che la sua legge trovi finalmente voce. Lidia ha chiuso completamente con l’amore, tanto più con Jacopo, responsabile di aver venduto la villa di famiglia e in rotta di collisione con tutti i Poët. Ma Jacopo e Lidia sono costretti a rivedersi per condividere, loro malgrado, un’indagine segreta che li riguarda da vicino, riscoprendo la complicità e il divertimento che li lega da sempre.
Quella che ha avuto Matteo Rovere è stata un’ottima idea: prendere un personaggio storico e non farne un biopic ma creare un prodotto ben preciso, che rispondesse a un target e un genere molto richiesto. Il modello della serie è Enola Holmes, l’eroina dei film con Millie Bobby Brown, una giovane investigatrice, una giovane donna in un ruolo che è sempre stato appannaggio degli uomini. In quel caso l’idea vincente era stata che Sherlock Holmes avesse una sorella e che fosse anche lei investigatrice. Qui che un personaggio storico, oltre alle capacità giuridiche, potesse avere anche quelle deduttive. E allora ecco il primo avvocato donna in Italia diventare anche una detective. Sia Enola Holmes che Lidia Poët hanno in comune la deduzione, raro dono che nel primo caso verrebbe dai geni familiari, nel secondo da un’evoluzione dei suoi studi di legge. In entrambi i casi, l’idea si è rivelata vincente.
Lidia Poët è un crime, un procedural, e come tale ha una trama verticale, un caso che viene risolto nel corso di un episodio (a tratti con momenti da CSI). Ha anche una trama orizzontale, ed è questa la parte più interessante. La lotta di Lidia per entrare all’Ordine degli Avvocati si evolve, e diventa qualcos’altro: Lidia si batte per diritti più ampi, come il diritto di voto alle donne, il suffragio universale, e la partecipazione delle donne alla vita politica. Come si può immaginare sarà osteggiata, non sarà capita. Ma lei andrà avanti, con la sua ironia, con quel suo sorriso arcaico. A proposito di Storia, gli sceneggiatori si divertono a intrecciarla con le vicende di Lidia: nel terzo episodio, ad esempio, la vediamo confrontarsi con Cesare Lombroso, il famoso antropologo considerato il padre della moderna criminologia.
La forma visiva de La legge di Lidia Poët è un ibrido tra un classico period drama e una confezione pop. Gli sfondi e gli ambienti sono ricostruiti piuttosto fedelmente, e la loro immagine ha spesso la grana delle cartoline d’epoca. Ma davanti a quegli sfondi ci sono le figure in primo piano. I loro abiti sono sì d’epoca, ma hanno un che di pop, soprattutto nei colori. Sono soprattutto i costumi di Lidia, a spiccare, a portare colore in un mondo di uomini più grigio. Guardate i viola, i rossi, i blu dei vestiti che indossa Matilda De Angelis. È un chiaro messaggio: in un mondo uniformato sono le donne, come Lidia, a portare la novità.
I costumi sono chiaramente reinterpretati secondo i gusti di oggi, ed è uno dei piacevoli anacronismi che spezzano il ritmo della serie. Un altro è dato dalle musiche, che sono extradiegetiche, per cui più libere, ma comunque sono contemporanee: dalla musica elettronica di Banks (Beggin For Thread) al punk elettronico di Riival (Misfit, la sigla finale di ogni episodio). È musica che astrae Lidia dal suo tempo e la porta al nostro, rendendola un’eroina contemporanea. E raccontandoci che le lotte di Lidia sono ancora attuali, e da combattere c’è ancora tanto.
Tutto è ammantato da una fotografia incantata, che rende tutto sospeso. I colori di Matilda De Angelis, gli occhi blu e l’incarnato bianco, che a tratti diventa dorato, sono enfatizzati: Lidia sembra uscita da un dipinto d’altri tempi, come da una rivista di moda di oggi. Lidia Poët è ovunque, nel passato e anche nel presente. E anche negli anni Quaranta, perché è da lì, dal cinema della Guerra dei Sessi, in cui i protagonisti si detestavano e si amavano, che viene tutta la linea narrativa con Jacopo, un convincente Eduardo Scarpetta. Tra lui e Matilda De Angelis la chimica è perfetta. E questo è un altro ingrediente di una storia vincente.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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