Festival de Cannes
Chanel, partner esclusivo del film Jeanne du Barry di Maïwenn
In linea con il suo sostegno alla creazione cinematografica, CHANEL è il partner esclusivo del nuovo film di Maïwenn, Jeanne du Barry, che accompagna anche con la progettazione e la creazione di sei costumi, cappelli di Maison Michel, il prestito di alta gioielleria CHANEL e pezzi di Goossens, oltre al coinvolgimento di CHANEL Parfums-Beauté per il trucco degli attori principali.
La regista ha scelto di dedicare il suo sesto lungometraggio all’ultima amante del re Luigi XV, che lei stessa incarna accanto a Johnny Depp (nei panni del re di Francia). Troppo spesso ridotta allo status di fumante cortigiana, Jeanne du Barry è stata infatti una grande mecenate delle arti, della moda e della cultura. Nata il 19 agosto, come Gabrielle Chanel, condivideva anche lei il desiderio della couturière di sostenere e proteggere gli artisti e gli artigiani del suo tempo. Per riflettere l’incredibile modernità di questa donna emancipata attraverso il suo guardaroba, Maïwenn ha svolto ricerche approfondite, interessandosi in particolare a diverse collezioni CHANEL Haute Couture disegnate da Karl Lagerfeld, per il quale l’Età dei Lumi è stata una fonte inesauribile di ispirazione: “Durante ho iniziato la preparazione per l’inizio del film, avevo così tanta documentazione, compresi i pezzi CHANEL delle collezioni degli anni ’80 e ’90, ispirati al 18° secolo”, spiega. “Ecco perché ho voluto collaborare con Virginie Viard a questo progetto.”
Con l’aiuto di Virginie Viard e del costumista Jürgen Doering, “abbiamo rivisto alcuni pezzi, in modo che si adattassero al film”, continua Maïwenn. “Volevo che gli abiti di Jeanne non fossero troppo svolazzanti e impreziositi, con voile di cotone. Cose abbastanza chiare ma molto semplici, e in materiali molto belli”. Tra i sei costumi appositamente creati da CHANEL: uno spettacolare abito in tweed ecru, evidenziato da una treccia e indossato con una giacca corta abbinata ispirata alla collezione Haute Couture Autunno-Inverno 1992/93; un abito bianco panna con strascico, collo e polsini ricamati con piume, nonché un abito in velluto di seta lampone ispirato ai modelli della collezione Haute Couture Primavera-Estate 2000; un abito a balze diafane in organza celeste, ispirato a una collezione del 1995; un sottoveste bicolore in sisal ecrù e nero, e un abito lungo in raso di pelle crema.
Per il personaggio di Jeanne du Barry, il regista ha deciso di indossare la riedizione più emblematica della collezione “Bijoux de Diamants” creata nel 1932 da Mademoiselle Chanel, che fece scandalo al momento del suo lancio. L’attrice indossa la versione rieditata della collana Franges di alta gioielleria CHANEL nella scena in cui viene presentata al re Luigi XV. Questa scena ha ispirato la locandina del film.
“Abbiamo cercato di trovare un modo giusto e contemporaneo di fare le cose lavorando con l’energia che ci anima nel 2023“, aggiunge Jürgen Doering. “Non mi piace quando le cose si bloccano troppo su riferimenti, dipinti o libri di storia. Voglio sfuggire a questi mondi chiusi e provare a trascrivere l’epoca con una boccata d’aria fresca. La collaborazione con CHANEL ha permesso di aggiungere grande accuratezza ai costumi del personaggio, con un approccio molto sfumato e sottile, e senza giocare con la discrepanza fine a se stessa”.
Questa avventura cinematografica è stata resa possibile grazie all’esperienza delle Maisons d’art: l’atelier Paloma, specialista in flou, il piumatore Lemarié, la cappellaia e modista Maison Michel (per i tricorni e i cappelli di paglia), nonché l’ orafo Goossens. Jeanne du Barry sarà presentato fuori concorso come film d’apertura del 76° Festival di Cannes martedì 16 maggio 2023, giorno della sua uscita nelle sale.
Crediti: ©Chanel
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Cine Mood
Festival di Cannes: Palma d’oro giapponese, ma l’Italia fa festa
Published
6 anni agoon
21 Maggio 2018Con la Palma d’Oro al film giapponese Shopfilters del maestro Kore-eda Hirokazu si è conclusa la 71a edizione del Festival di Cannes. Un’edizione, come avevamo già sottolineato in apertura, che ha preso il via tra le polemiche sul “bando” anti-Netflix e quelle per il divieto di selfie sul red carpet (nonché per la cancellazione delle proiezioni anticipate per la stampa), ma che è poi proseguita sotto il segno del grande cinema. Per chi era presente sulla Croisette nei 12 giorni di festival, è stata infatti una delle migliori edizioni degli ultimi anni, soprattutto per la qualità dei film in selezione. Un livello cinematografico alto, con alcune vette, raggiunto anche grazie ai titoli italiani in programma. Il nostro cinema, infatti, non si è semplicemente “difeso” durante la kermesse, ma ne è uscito a testa alta, da vincitore. Euforia di Valeria Golino non ha ricevuto premi nella sezione Un Certain Regard ma è stato accolto con entusiasmo; la commedia di Gianni Zanasi, Troppa grazia, ha vinto alla Quinzaine des realisateurs il Label di Europa Cinemas; La strada di Samouni di Stefano Savona ha ricevuto l’Oeil d’Or come miglior documentario del Festival; e, soprattutto, i due film in concorso, Dogman di Matteo Garrone e Lazzaro felice di Alice Rohrwacher, pur non portandosi a casa la Palma d’Oro (che per molti, comunque, non sarebbe stata affatto immeritata) sono entrati entrambi nel palmàres finale. La Palma per il miglior attore è andata infatti a Marcello Fonte, sorprendente protagonista del noir ispirato alle vicende del canaro della Magliana. «Un po’ Buster Keaton, un po’ Charlot», come l’aveva definito Garrone, Fonte è stato acclamato dalla stampa internazionale e ha stregato la giuria presieduta da Cate Blanchett. Premiato sul palco della sala Lumière da Roberto Benigni, che ha fatto ridere la platea con il suo divertentissimo francese, l’attore ha commosso tutti con le sue parole: «quando abitavo in una baracca e sentivo la pioggia cadere sopra le lamiere mi sembrava di sentire gli applausi. Adesso quegli applausi siete voi. E io sento il calore di una famiglia. Mi sento a casa, la mia famiglia è il cinema».
Al film della Rohrwacher, regista che aveva già vinto il Grand Prix a Cannes per il suo Le meraviglie, è andato invece il riconoscimento per la miglior sceneggiatura, ex aequo con 3 Faces dell’iraniano Jafar Panahi. «Grazie a tutti quelli che mi hanno permesso di realizzare questo film con questa sceneggiatura così bislacca e hanno preso seriamente il mio script», ha dichiarato l’autrice. «Grazie soprattutto ad Adriano, Lazzaro del film, che ha deciso di buttarsi in questa avventura».
In un’edizione molto al femminile, segnata evidentemente dal movimento #metoo (da menzionare, a riguardo, l’intervento di Asia Argento contro Harvey Weinstein durante la premiazione), la nostra Alice Rohrwacher era una delle tre registe donne presenti nel concorso ufficiale. Con lei c’erano anche la francese Eva Husson e soprattutto la libanese Nadine Labaki, che con il suo Capharnaum sulla tragedia dei migranti è riuscita ad aggiudicarsi il Premio della giuria. Prima della cerimonia di chiusura, il film sembrava in pole per la Palma d’Oro, ma a vedere la griglia dei premi principali a contendersi sino all’ultimo il riconoscimento maggiore con il giapponese Kore-eda sembrano esser stati altri titoli: il polacco Cold War del premio Oscar Pavel Pawlikowski, che ha vinto la Palma per la miglior regia; la commedia anti-Trump del grande Spike Lee, Blackkklansman, ispirata alla vera storia di Ron Stallworth, che nel 1972 s’infiltro con un collega nel Ku Klux Klan, che ha ottenuto il Grand prix; ed infine Le livre d’image dell’eterno maestro Jean-Luc Godard che, dopo aver sorpreso tutti nei giorni scorsi partecipando alla conferenza stampa tramite uno smartphone e FaceTime, è stato premiato con una Palma speciale, che a molti è sembrata più che altro un premio alla carriera. «Dopo aver visto il film, non riuscivamo a smettere di parlarne», ha affermato in seguito Cate Blanchett. «È rimasto con noi per tutto il Festival. E’ un film che suscita sorpresa, emozioni, a tratti anche collera. Godard è un autore che non smette mai di sperimentare e di pensare il futuro. Ma questo premio non è una Palma alla carriera», ci ha tenuto infine a precisare.
I verdetti della presidentessa Blanchett e dei suoi colleghi non devono essere stati semplici, data la qualità delle pellicole in gara, ma il clima festoso che ha avvolto questa edizione avrà di certo reso piacevole il loro lavoro durante i giorni della kermesse. A dare la cifra dell’atmosfera del festival, il concerto di Sting e Shaggy, che hanno cantato sulla Montèe de Marches a fine cerimonia. Una chiusura in grande stile, cose che solo a Cannes si possono vedere. À la prochaine.
di Antonio Valerio Spera per DailyMood.it
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Cine Mood
Dogman. Un incredibile viaggio immersivo nella natura umana
Published
7 anni agoon
18 Maggio 2018In una scena di Dogman, il nuovo film di Matteo Garrone, presentato a Cannes e appena arrivato nelle nostre sale, i protagonisti entrano in una discoteca dove sono contornati da angeli. Ma non sono veri. Sono delle ballerine che sono lì per lavoro. Il Bene, nel nuovo film di Matteo Garrone, è probabilmente solo un’illusione, un’aspirazione impossibile da raggiungere. Perché il mondo, purtroppo, va da un’altra parte. Dogman è tutto questo: una parabola, un racconto morale e universale, un’opera che scandaglia nel profondo la natura umana. Pur prendendo spunto da un fatto di cronaca, l’omicidio dell’ex pugile Giancarlo Ricci a opera di Pietro De Negri, detto il Canaro della Magliana, avvenuto nel lontano 1988, Dogman diventa subito qualcos’altro. I protagonisti non si chiamano così. E non siamo nemmeno a Roma.
E allora dove siamo? In un mondo fuori dallo spazio e dal tempo, un non luogo, metafisico, quasi astratto, irreale, spettrale e simbolico. Una periferia deserta e desertificata, svuotata di vita e di contenuti, un luogo immaginario tra Roma e Napoli dove i personaggi parlano vari dialetti, romano, calabrese, campano. Un luogo fuori dal tempo, ma al contempo anche una delle tante periferie italiane di oggi, dimenticate dalla politica e dai riflettori. Almeno fino a che non arriva, come qui, la tragedia. E la cronaca nera. A rischio di spezzare l’incanto, vi raccontiamo che questo posto esiste davvero: si chiama Villaggio Coppola e si trova a Castel Volturno, non lontano dai luoghi di Gomorra. Fu costruito per le truppe americane della Nato e poi abbandonato. È reale, anche se sembra una scenografia costruita appositamente per un film western, l’ultimo avamposto prima del deserto. Trovare luoghi simili, ridipingerli con i suoi colori desaturati, riprenderli enfatizzando il loro squallore, le crepe, i vuoti, è una delle particolarità del cinema di Matteo Garrone. La sua proverbiale spietatezza dello sguardo, in grado di mostrarci come pochi altri il degrado dei nostri luoghi e delle nostre anime, si trova anche in Dogman.
Un’altra particolarità è quella di trovare, oltre i luoghi, le persone, le storie, le chiavi interpretative. Ha fatto scuola la produzione di Gomorra, un vivere in simbiosi con il luogo filmato, tanto da recepire i consigli, il mood, l’anima di un ambiente, oltre a prenderne volti e corpi. Oltre al suo set, Garrone ha saputo scegliere il suo protagonista. Ancora una volta andando a prenderlo fuori dal circuito del cinema che conta. Marcello Fonte, che interpreta il protagonista (che si chiama come lui, Marcello, e ama stare con i cani più che con le persone), è un attore, ma ha recitato in piccole compagnie teatrali, o ha fatto la comparsa. Garrone lo ha trovato in un centro sociale occupato, era il guardiano di uno spazio dove recitavano ex detenuti. Non proprio un attore “preso dalla strada”, come si teneva a dire nel Neorealismo, ma quasi. Marcello è un attore unico: una voce stridula, debole, come il fisico gracile e minuto. Due occhi enormi, due occhi buoni. Il controcanto è l’altro protagonista, la vittima – che però in tutto il film è il suo vessatore, il bullo, il violento – Simoncino, interpretato da Edoardo Pesce, un attore professionista, solido, dotato di un fisico e di un soma che lo spinge verso ruoli da villain (l’abbiamo visto in Cuori puri e Fortunata), ma che, finora, gli abbiamo visto interpretare in modo sempre diverso. Marcello e Simoncino, e i loro interpreti Fonte e Pesce, sono lo yin e lo yang, il grosso e il minuto, il cattivo e il buono. Due opposti destinati ad attrarsi.
In fondo Dogman è ancora la storia di una relazione problematica, squilibrata, malata. È l’ideale compimento del discorso iniziato con L’imbalsamatore e Primo amore, l’attrazione fatale tra due solitudini, un rapporto tra due persone in cui una delle due è in una condizione di dominio e l’altra di sottomissione, in cui uno cerca di rincorrere l’altro senza raggiungerlo mai. È il Male che nasce da uno squilibrio, da un rapporto cercato e mai esistito, dall’inadeguatezza, dalla rivalsa. Ma in Dogman c’è tutto il cinema di Garrone: la violenza che scaturisce dall’ambiente, e che sembra il finale inevitabile di certe storie, una strada senza alternative, come in Gomorra. La storia di un Candido che è destinato a scontrarsi con il mondo, come in Reality.
Dogman è soprattutto, l’ennesima, profonda riflessione su Bene e Male, e quindi sulla natura umana, di Matteo Garrone. Uno dei nostri migliori registi ci ricorda che dietro al Male c’è sempre un percorso, una relazione, una ferita. La grandezza di Garrone è che quella ferita non la copre, non la nasconde, ma la apre, e ce la fa vedere impietosamente. Il suo Dogman è qualcosa di incredibile: è una straordinaria esperienza immersiva, interattiva, un viaggio tridimensionale dentro la nostra natura. Perché, nel momento in cui Marcello ha la sua rivalsa contro il suo vessatore, noi siamo tutti lì con lui, lo capiamo, lo accompagniamo nella sua vendetta. La compassione e l’identificazione di cui ci fa partecipi Garrone è solo quella di cui è capace un grande cineasta. E, mentre nel negozio di Marcello i cani osservano attoniti ed esterrefatti alla follia di cui siamo capaci noi esseri umani, capiamo anche questo. Che il Male è dentro tutti noi.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Festival di Cannes al via: Javier Bardem e Penélope Cruz aprono l’edizione delle polemiche
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7 anni agoon
9 Maggio 2018Il festival no-Selfie, no-Netflix e no-anteprime stampa è iniziato. Cannes, dopo le scelte discutibili del suo direttore Thierry Fremaux, è partito nel segno del glamour e del grande cinema, provando a mettere in secondo piano le polemiche che hanno animato le ultime settimane. Javier Bardem e Penélope Cruz, protagonisti del film Todos Lo Saben dell’iraniano Asghar Farhadi, hanno sfilato nel red carpet d’apertura, insieme alla giuria presieduta da Cate Blanchett e a Martin Scorsese, che verrà premiato oggi con la Carrosse d’Or alla Quinzaine des réalisauteurs.
Un parterre di tutto rispetto e ricco di star (in giuria ci sono anche Kristen Stewart e Lèa Seydoux) che difficilmente ritroveremo nei prossimi giorni di festival. Nonostante, infatti, un programma – almeno sulla carta – di buona se non alta qualità, saranno pochi i film che potranno garantire la presenza sulla Montée des marches di stelle di richiamo internazionale. I titoli più attesi, da questo punto di vista, verranno presentati fuori concorso e sono Solo: A Star Wars Story di Ron Howard e The House That Jack Built del danese Lars Von Trier, riammesso al festival dopo le sue frasi filonaziste di qualche anno fa, che porterà sulla Croisette Uma Thurman e Matt Dillon.
Ma d’altronde era da aspettarsi un festival leggermente sottotono. Un po’ per una dichiarata (e marcata) adesione alla marcia del movimento #metoo, che probabilmente smusserà l’atmosfera di festa; un po’ per la decisione del direttore di escludere i film targati Netflix. Una scelta, quest’ultima, che ha diviso: apprezzata dai puristi del cinema, non di certo gradita dall’industria cinematografica, soprattutto hollywoodiana. In molti, per questo, si stanno chiedendo quale sarà il destino del festival più importante del mondo, che rischia di perdere questo ruolo e di assistere ad una forte ascesa dei “concorrenti” Toronto e Venezia.
Staremo a vedere. E’ ancora presto per arrivare a conclusioni e ogni giudizio definitivo sarebbe ovviamente azzardato. Per ora godiamoci quel che Cannes ci offrirà in questa 71esima edizione, che – siamo sicuri – ci riserverà in ogni caso qualcosa di buono se non di entusiasmante. Le aspettative per alcuni titoli in programma sono alte. C’è tanta curiosità per Blackkklansman, titolo complicatissimo della nuova fatica di Spike Lee; i cinefili fremono per The Picture Book, ultimo film dell’eterno Jean-Luc Godard; si spera che il premio Oscar polacco Pawel Pawlikowsi si ripeta dopo l’exploit di Ida; c’è chi sogna di vedere finalmente il maledetto The Man Who Killed Don Quixote di Terry Gilliam, dopo diciassette anni di lavorazione e con tanti problemi relativi alla distribuzione (in realtà non si sa ancora se il film sarà proiettato).
E poi ci sono gli italiani. Valeria Golino torna da regista nella sezione Un Certain Regard con la sua opera seconda Euforia, che vede protagonisti Riccardo Scamarcio e Valerio Mastandrea. In concorso, invece, promettono grandi cose i nuovi film di Alice Rohrwacher, Lazzaro felice, e di Matteo Garrone, Dogman. Entrambi hanno già vinto il Gran Prix sulla Croisette nelle passate edizioni (Garrone addirittura due volte): quest’anno sarà Palma d’Oro?
di Antonio Valerio Spera per DailyMood.it
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