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Barbie: Un film giocattolo con dentro la sorpresa
E se, nel bel mezzo di una serata danzante tra amiche, Barbie diventasse di colpo “Barbie irrefrenabili pensieri di morte”? Capita anche questo nel sorprendente film Barbie, diretto da Greta Gerwig con Margot Robbie come protagonista, in uscita al cinema il 20 luglio. La nostra Barbie, alta, bionda, con gli occhi azzurri, ha avuto un’altra giornata perfetta nella sua vie en rose. Eppure le vengono dei pensieri strani. E il giorno dopo ogni cosa, nella sua casa dei sogni di Barbieland, sembra non funzionare. C’è qualcuno, che gioca con lei nel mondo reale, a cui sta accadendo qualcosa di strano. E così, insieme al fidato (o no?) Ken, sarà costretta a venire nel nostro mondo per scoprire che cosa sta accadendo. La nostra Barbie scoprirà molte cose che non immaginava, e lo stesso farà Ken. Barbie, oltre che una grande operazione di Branded Entertainment, è un inaspettato film giocattolo, colorato e spassoso, ma con dentro la sorpresa: ci parla di genere, di patriarcato, di empowement femminile e di inclusività. In modo forse troppo schematico e didascalico, ma anche con un’ironia rara in un blockbuster.
Barbie appare nel nostro mondo – con il suo primo costume da bagno, a righe orizzontali bianche e nere – enorme e solitaria in un pianeta deserto, come il monolite di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, con la musica di Così parlò Zarathustra di Richard Strauss. Da quel momento, nulla sarebbe stato come prima. Le bambine, che prima giocavano con i bambolotti, quelli a forma di bebè, e quindi erano destinate a giocare ad essere madri, ora non dovevano più farlo. Barbie, che aveva le sembianze di una donna adulta, poteva essere qualsiasi donna. E così quelle bambine potevano diventare quello che volevano. È questo che vuole dirci il nuovo film Barbie: quella bambola, per anni additata come modello di bellezza stereotipato, univoco, irraggiungibile, in realtà voleva essere il contrario. Voleva dire alle bambine che sarebbero potute diventare dottoresse, scienziate, giornaliste, presidentesse. In un altro momento del film, una bambina cresciuta e diventata adolescente se la prende con Barbie, arrivata nel mondo reale, proprio per questo motivo. “Fai sentire le donne sbagliate. Hai fatto arretrare il mondo di 50 anni”. “Il mio compito è renderti felice, consapevole” risponde lei.
Barbie è questo, è un riposizionamento: non commerciale, ma valoriale. È un voler trovare a Barbie un posto nel mondo di oggi. Quello dell’inclusività, dell’accettazione delle diversità, dell’empowement femminile. È una sorta di autocritica per quello che, forse senza volerlo, negli anni la Mattel e il marchio Barbie hanno comunicato. È il loro bisogno di dire “forse abbiamo sbagliato, volevamo dire un’altra cosa. E, se non l’abbiamo detta prima, la diciamo adesso”. “Non c’è nessuna donna al comando?”, dice una Barbie incredula una volta arrivata nel mondo reale e arrivata al cospetto del consiglio di amministrazione della Mattel. Il cui CEO, un Will Ferrell mellifluo e ingannevole, risponde in modo evasivo: non sa spiegarle il perché, ma le cose stanno così. Barbie, quando arriva nel mondo reale, scopre che è tutto il contrario di Barbieland: i maschi usano i doppi sensi, la guardano in modo malizioso, e dominano un mondo in cui per le donne non c’è il posto che credeva ci fosse.
A Barbieland, dove tutti i personaggi femminili si chiamano Barbie, la protagonista, Margot Robbie, si chiama proprio “Barbie Stereotipo”. Che è un modo molto ironico per dire che, sì, in effetti, in questi anni Barbie ha portato avanti un modello stereotipato e irraggiungibile di bellezza. Ma in Barbieland ci sono in realtà Barbie molto diverse tra loro: diverse etnie, diverse caratteristiche fisiche. Ci sono donne che possono raggiungere qualsiasi professione e qualsiasi livello di carriera. Barbie, allora, è un passo avanti del marchio verso l’accettazione della diversità, verso l’inclusività, una dichiarazione d’intenti contro il body shaming.
Ci sono insomma tanti contenuti, tanti messaggi in quello che sembra un film giocattolo. E lo è, oltre ovviamente ad essere molto altro. Lo è nel senso che dichiara subito la natura di giocattolo di Barbie, il suo vivere in un mondo che è quello dei giochi, e il suo essere destinata ad essere “giocata” da qualcuno. È quello che avveniva in Lego Movie, ma la sua natura era svelata solo alla fine del primo film. Non è quello che avviene, per fare un esempio opposto, nei film dei Transformers, dove i robot sono calati in quello che si presume il mondo reale. Dichiarare subito la natura di Barbie permette una serie di gag molto divertenti, come il fatto di uscire di casa senza scendere le scale, o bere e mangiare senza che ci sia niente nei recipienti. Ma, osando ancora di più, il film non cerca di evitare tutte le contraddizioni del mondo di Barbie, inevitabili in quello che è un gioco per bambine, ma le enfatizza e ci costruisce gag e divertimento. Quel “noi non abbiamo genitali” che dice Barbie a un gruppo di uomini nel mondo reale fa il paio con il fatto che lei e Ken non facciano sesso, e, in fondo, forse non stiano neanche insieme. “Puoi andare” dice lei a Ken dopo una serata insieme. “Forse potrei restare stanotte” ribatte lui. “Per fare che?” “Non lo so…”: Greta Gerwig e Noah Baumbach, sceneggiatori sopraffini, sfruttano insomma ogni occasione possibile per prendersi in giro, prendono il comando di un blockbuster per distruggerlo dall’interno.
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Già, Ken. C’è anche lui nel mondo di Barbie. Ma, mentre Barbie può essere qualsiasi cosa, lui può essere solo Ken. Già Toy Story 3, se ricordate, aveva definito chi era. Un personaggio maschile, ma, in fondo, un giocattolo per bambine, e, come tale, costruito a misura di bambina. Una Barbie al femminile, vanesio e un po’ infido. E comunque un personaggio che vive nella vita di Barbie. Come lo è il Ken di Ryan Gosling, capelli biondo platino e addominali in bella vista. “È sempre Barbie & Ken”, dice lui. E se, arrivati nel mondo reale, Barbie scopre il patriarcato con sgomento, Ken lo scopre con piacere. Certo, per lui è fatto di cavalli, hard rock, Sylvester Stallone e Ronald Reagan. Ma, tornato a Barbieland, prova a riproporlo. Con esiti esilaranti. Ma anche con un po’ di amaro in bocca per noi. Perché se il nostro mondo di oggi, con le sue storture, irrompe anche in un mondo che non era così, certe cose le noti ancora di più.
Barbie è una caramella rosa, un marshmallow che ha dentro però un cuore più amaro, più velenoso. È un film satirico, pieno di citazioni e di spunti, che alla fine fa bene il suo lavoro. Solo che ci sembra troppo programmatico, troppo didascalico. È un film più di testa che di cuore, in cui c’è più logica che passione, più costruzione che empatia. È uno di quei film dove i concetti vengono spiegati per filo e per segno, esplicitamente, più che suggeriti e fatti arrivare in modo indiretto al pubblico. E questo fa sì che, al di là del divertimento, anche cinefilo, e del significato, sacrosanto, il film lasci un po’ freddi e non conquisti fino in fondo come potrebbe.
Resta anche da capire il target di questo film. Che non è un film per le bambine che con le Barbie ci giocano. I riferimenti sono troppo complessi, e anche il gioco sulla sessualità non è adatto. È più un film per ragazze cresciute che le Barbie le hanno amate, e tanto, come il personaggio di America Ferrera, designer e mamma di un’adolescente che con le Barbie non ci gioca più (l’abbandono, altro tema caro a Toy Story). E per teenager, che non giocano con le bambole ma sono affascinate da quel mondo rosa e glamour che hanno vissuto e che in qualche modo vogliono continuare a vivere. Anche se, come vediamo nel film, non tutte sono d’accordo.
Sono questi i dubbi che ci vengono a proposito di quello che comunque è uno spettacolo orchestrato alla grande, con numeri da musical, costumi e scenografie perfette. Quello di Barbie è un mondo dichiaratamente fittizio, dove tutto è chiaramente di plastica (ricordate quella canzone? Life in plastic is fantastic): le case, le macchine, anche la sabbia e le onde. A un certo punto del film sentiamo la protagonista dire in lacrime “io non sono abbastanza bella per essere Barbie Stereotipo”, in un momento in cui si sente giù. E un’autoironica voce fuori campo ci dice: “Nota per i filmmaker: Margot Robbie non è la protagonista giusta per trasmettere questo messaggio”. Ironia a parte, è proprio così: l’attrice è fisicamente Barbie, lo è sempre stata, ma dentro è sempre stata molte altre cose: quegli occhi azzurri, “da stereotipo”, diventano velati di malinconia, quella bocca sorridente comincia ad avere gli angoli rivolti verso il basso. Così gli occhi dolci del Ken di Ryan Gosling riescono a diventare sinistri, e poi di nuovo dolci, e un po’ abbacchiati. I due attori, sopra le righe come è giusto che siano due personaggi giocattolo, fanno centro. E il film li porta verso un finale che la creatrice di Barbie in realtà non aveva mai scritto per lei. E che Barbie, come ogni donna oggi è giusto che faccia, vuole scriversi da sola.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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This Time Next Year: Una commedia romantica inglese di quelle che amiamo
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2 giorni agoon
15 Novembre 2024Commedia romantica inglese. Bastano queste tre parole magiche per definire This Time Next Year di Nick Moore, tratto dal bestseller di Sophie Cousens, al cinema dal 14 novembre, distribuita da Notorious Pictures. Bastano anche le prime immagini che scorrono sullo schermo a portarci subito dentro la storia: una Londra da sogno, illuminata per le Feste di Natale. È la vigilia di Capodanno e la nostra protagonista, Minnie, sta uscendo per andare a una festa. Ma, ogni cosa sembra andarle storto: resta ferma in un tunnel con la metropolitana, arriva alla festa e qualcuno, ubriaco, le vomita addosso. E, come se non bastasse, resta chiusa nel bagno del locale. Passerà la notte di Capodanno lì. Forse è un po’ sfortunata.
This Time Next Year è la storia di Minnie e Quinn, nati il giorno di Capodanno nello stesso ospedale a pochi minuti di distanza. Quinn doveva in realtà essere il nome di Minnie, un nome portafortuna. Ma la mamma di Quinn, nato prima di lei, decise di mettere al suo bambino quel nome. E fu lei a vincere il ricco premio per il primo nato dell’anno. Le vite di Minnie e Quinn prendono direzioni opposte, ma nel giorno del loro trentesimo compleanno si incontrano casualmente proprio a quella festa di Capodanno. Quinn è un affascinante imprenditore che sembra avere tutto dalla vita. Minnie è sull’orlo di perdere la casa e la sua pasticceria. Tra di loro c’è intesa, appaiono perfetti l’uno per l’altra, ma Minnie fa di tutto per non innamorarsi di lui.
Vedi This Time Next Year e ti passano davanti tante commedie romantiche del tuo cuore: Love Actually, Sliding Doors, Notting Hill e Last Christmas, What’s Love Got To Do With It, tutte ambientate a Londra. Ma anche un po’ Serendipity, anche se in quel caso eravamo a New York, proprio per quel senso di destino che unisce i due protagonisti. Alcuni modelli di commedia romantica non sono citati a caso. Il regista, Nick Moore, è stato il montatore di Love Actually e Notting Hill. Sliding Doors e Serendipity, invece, sono vicine a questo film perché è una storia di coincidenze, sorprese e seconde opportunità, che esplora con ironia il ruolo del destino nelle nostre vite. A proposito di Sliding Doors, nel ruolo del padre di Minnie c’è John Hannah, che era l’uomo che faceva innamorare Gwyneth Paltrow in quel film. Con i capelli e la barba bianca, è sempre affascinante e perfetto per il ruolo di un uomo dolce. Ma vuol dire anche che ne è passato di tempo… I protagonisti sono Lucien Laviscount, visto in Emily in Paris, aitante ed empatico e Sophie Cookson, nota per Kingsman: Secret Service, una bellezza minuta e insolita.
This Time Next Year è gradevole, ben scritto e ben recitato. Ci sono quei personaggi di contorno disegnati con cura, e recitati altrettanto bene, che sono uno dei plus di certe commedie inglesi. Come ha dichiarato il regista, il film si ispira alle grandi commedie della Working Title (quasi tutti i film di cui stiamo parlando). Ma questa non è un film della Working Title, e nel frattempo i tempi sono cambiati. This Time Next Year è un film meno sognante, meno brillante e scoppiettante. È più riflessivo e intimo, e con dentro più vita reale. I personaggi sono alle prese con dei problemi personali ed economici più marcati rispetto al solito. Per una volta, più che personaggi ci sembrano persone.
This Time Next Year è un film su un amore che non scatta subito ma si prende tutto il suo tempo – e anche questo è in controtendenza con tante storie a cui siamo abituati – per esplodere. Un amore frenato per storie che vengono dal passato, per la paura di fare del male, per la paura di essere ancora delusi. Prima dell’amore c’è l’amicizia, la delusione, la sorpresa. C’è una storyline parallela, dedicata all’amicizia delle madri dei due protagonisti, che è piuttosto originale per un film di questo tipo. E ci sono le immancabili citazioni, da uno Star Wars che sta bene ovunque a Insonnia d’amore, perché ogni commedia romantica che si rispetti ha bisogno di quell’incontro al quale non si può mancare. A maggior ragione se è scritto nel destino.
di Maurizio Ermisino
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We Live In Time – Tutto il tempo che abbiamo: Florence Pugh e Andrew Garfield nella storia d’amore dell’anno
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3 settimane agoon
25 Ottobre 2024We Live In Time significa “viviamo nel tempo”, “noi viviamo attraverso il tempo”. Una frase che potete interpretare in molti modi. Lasciamo a voi farlo, dopo aver visto We Live In Time – Tutto il tempo che abbiamo di John Crowley, con Florence Pugh e Andrew Garfield, presentato alla Festa del Cinema di Roma e in uscita nelle sale dal 28 novembre, distribuito da Lucky Red. Di certo in quel “we live in time” c’è anche una dichiarazione d’intenti che riguarda la forma narrativa del film, una delle cose che lo rende particolare. La storia di Almut e Tobias sarebbe una delle tante commedie romantiche commoventi, e anche divertenti, se non fosse che sul racconto incide un elemento fondamentale: il tempo. Le chiamano dramedy, oggi, ma a noi piace chiamarle tragicommedie, perché dentro portano sorrisi e lacrime, alti e bassi. Sono come la vita.
La storia è semplice, ma è bene non dire molto. Almut (Florence Pugh) è una chef stellata che sta per aprire un suo ristorante. Una notte conosce Tobias (Andrew Garfield), in un modo piuttosto particolare: lo investe con l’auto mentre lui sta attraversando la strada. Era appena uscito dalla sua stanza d’albergo per comprare delle penne: doveva firmare i documenti del divorzio. Ma della storia vi abbiamo già detto troppo.
Sì, perché la scena del loro incontro arriva dopo qualche decina di minuti del film, e potrebbe anche essere una sorpresa. La storia era iniziata infatti in medias res, con Almut e Tobias che sono già innamorati e vivono insieme. We Live In Time farà sempre così: salterà avanti e indietro nel tempo, ci racconterà la vita dei due innamorati così come l’hanno vissuta, solo montando gli avvenimenti in modo non lineare. Quando parliamo dell’elemento tempo, allora, non parliamo dei viaggi nel tempo di tante commedie (Questione di tempo, Ricomincio da capo, Palm Springs), ma solamente di un modo di raccontare la storia.
Le tappe fatidiche di una storia d’amore, allora, si accavallano l’una all’altra, e la cosa indubbiamente dà movimento al film. Primo, perché tiene desta l’attenzione dello spettatore, che non riesce immediatamente a capire a che punto della storia si trova, visto che i cambiamenti fisici dei personaggi a volte ci sono, a volte no, a volte sono impercettibili. Posizionare le carte degli avvenimenti – un po’ come le carte degli imprevisti sulla tabella del Monopoli – permette poi agli autori di svelare i fatti un po’ a loro piacimento, tenendo così sulla corda lo spettatore, e cercando di stupirlo, svelando le cose a poco a poco. E lo spettatore, va detto, sta al gioco volentieri.
Ma è probabile che la scelta non sia solo un fatto di vivacità narrativa. È possibile che John Crowley e Nick Payne, autore dello script, con questa struttura abbiano voluto dirci qualcos’altro. We Live In Time è questione di presente e passato, di fatti e di ricordi. E quando, a un certo punto, ricordiamo quello che è successo, lo ricordiamo a sprazzi, per flash, per scene, non certo con la storia completa, non certo come se leggessimo un libro stampato o vedessimo un film. We Live In Time potrebbe essere questo, lo sguardo verso la vita di chi ricorda alcuni momenti e li rivive così, in modo sparso, seguendo le emozioni. Ma questo correre sfrenato del tempo vuole anche dirci che il tempo che abbiamo non è abbastanza, per cui la vita va vissuta in modo pieno.
We Live In Time in questo modo colpisce di più, perché gioie e dolori, litigate e passione, nuvole e sole si affastellano, si rincorrono, lottano l’una contro l’altra interrompendosi di continuo. In questo modo ogni emozione diventa più forte e contrasta con le altre, come in una doccia scozzese: perché questi momenti, messi uno accanto all’altro, risaltano di più. E noti anche di più la bravura degli attori. Perché vedi diversi lati del loro personaggio, del loro mood, messi improvvisamente uno di fila all’altro.
Gli attori sono sicuramente un punto di forza di un film bellissimo, scritto benissimo partendo proprio dai personaggi. Come spesso accade nei racconti di oggi, c’è un ribaltamento: Tobias, Andrew Garfield, è più romantico, timido, impacciato (è stato Peter Parker, ricordiamolo), ha molte caratteristiche che si è soliti associare ai personaggi femminili. Per contro, la Almut di Florence Pugh è più scontrosa, sboccata, concreta e attiva, meno romantica e più pratica. Sono personaggi di finzione, ma scritti così bene che potrebbero essere veri.
Gli attori si gettano con tutta l’anima in questa storia. Garfield con i suoi modi gentili e la sua bellezza elegante, Florence Pugh con la sua bellezza insolita e sfrontata, e la sua naturale carica erotica. La sensualità, la forza di certe scene di passione è una novità in un genere come la commedia romantica, ed è un altro tocco in più che ci fa entrare ancora di più nella storia. We Live In Time è una delle storie d’amore più belle dell’anno. Ed è uno di quei film che, probabilmente, resteranno nel tempo.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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The Substance: Demi Moore e Margaret Qualley, la bellezza è un (body) horror
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4 settimane agoon
21 Ottobre 2024Hai mai sognato una versione migliore di te? Sarai sempre tu, ma più giovane, più bella, più forte. In una parola: perfetta. Chi non vorrebbe una soluzione del genere? Sì, ma a che prezzo? Il caro, vecchio “patto con il Diavolo” ritorna in The Substance, il film di Coralie Fargeat con Demi Moore e Margaret Qualley che ha scioccato il Festival di Cannes e arriva nelle nostre sale il 30 ottobre, dopo un passaggio alla Festa del Cinema di Roma e alcune anteprime dal 18 ottobre. The Substance è un body horror che riprende la lezione di David Cronenberg e la reinventa in un film pop, patinato, ironico e tagliente, con un finale che porta tutto all’eccesso. È un film per stomaci forti, ma da vedere. Coglie infatti il senso dei tempi che stiamo vivendo.
Elisabeth (Demi Moore) è un’attrice sui sessant’anni con una stella sulla Walk Of Fame (attenzione alla prima e all’ultima scena). Come aveva fatto a suo tempo Jane Fonda è una star del fitness in tv. Ogni mattina fa il suo programma di aerobica, visto da molte persone. Il proprietario dell’emittente, però, decide che Elisabeth è ormai troppo anziana: vuole qualcuno di più giovane e di più sexy. L’attrice, dopo un’incidente, viene ricoverata in ospedale. Prima delle dimissioni, un giovane medico le dà una chiavetta USB. Dentro c’è la risposta ai suoi problemi: la pubblicità una sostanza che, iniettata nel modo giusto, darà vita a una nuova lei. Che nasce da un taglio sulla schiena, per partenogenesi. E così ecco Sue (Margaret Qualley) che diventa la nuova star del programma di fitness, Pump It Up. C’è solo una regola da seguire: le due sono la stessa persona, per cui devono “vivere” una settimana a testa e alternarsi. Altrimenti…
The Substance rilegge in chiave moderna e “medica” il mito del Faust, del fantomatico “patto con il Diavolo” che è sempre stato un classico del racconto sulla natura umana. Ma Sue ed Elisabeth sono anche Dorian Gray e il suo ritratto, solo che il ritratto stavolta è vivo. Sono Eva contro Eva, ma stavolta sono la stessa persona. The Substance è una metafora che coglie molte delle situazioni della nostra epoca. Dall’ossessione per la giovinezza, che da anni ormai si rivela nel continuo ricorso alla chirurgia estetica. Ma anche per l’attenzione spasmodica alla nostra immagine: pensiamo ai social, e agli altri noi stessi che promuoviamo su quegli schermi, più giovani, più belli, più felici e di successo.
Coralie Fargeat per raccontarci tutto questo ci trascina in un vortice di colori e di sensualità. I colori sono quelli accesi e brillanti degli anni Ottanta, gli anni in cui l’attenzione per il corpo e per l’immagine che viviamo oggi è iniziata. Le inquadrature sul corpo femminile, su certi particolari del corpo, sono insistite, decise, volutamente voyeuristiche. Coralie Fargeat riprende i codici di una certa comunicazione visiva sessista e maschilista per veicolare in maniera più efficace e diretta il suo messaggio. Il sessismo è messo chiaramente alla berlina (il personaggio del tycoon, Dennis Quaid, è raffigurato come un essere laido e vorace). E il gioco delle inquadrature è talmente insistito e dichiarato da rendere tutto palesemente ironico e grottesco. Tanto più che a inquadrare i corpi c’è una donna.
Nel mondo di Sue ogni inquadratura è in pratica uno spot: le labbra glossate che incontrano una lattina sono la pubblicità della Coca-Cola, le inquadrature sul fondoschiena sembrano quelle di un marchio di intimo, quelle in cui è in scena con tutine attillate e minimali sembra quella dei costumi da bagno, o un numero di Sports Illustrated.
Coralie Fargeat riprende la lezione dei grandi del cinema per dare vita a un film che comunque è molto originale. Il legame più diretto è quello con il padre del body horror, David Cronenberg, da Videodrome a La mosca fino a eXistenZ. Ma c’è anche il David Lynch di Mulholland Drive, caustico e critico verso il sogno americano di Hollywood, con le sue palme luminose e ingannevoli, e quelle sequenze all’aperto cariche di ansia e attesa. Ma c’è anche Darren Aronofsky, man mano che il film avanza, con quei gesti ossessivo-compulsivi di Requiem For A Dream. Quello che la Fargeat non ha di questi autori è la misura: un regista come David Cronenberg, pur nelle sue mutazioni orrorifiche, ha sempre mantenuto un certo controllo, una sua freddezza quasi geometrica, e non è mai andato oltre il necessario. Caroline Fargeat, nel finale, opta per un tono grottesco e grandguignolesco che nel messaggio del film ci sta. Ma ci era piaciuto però di più il tono dei primi tre quarti del film, più ironico.
The Substance è comunque un gran film, che non sarebbe lo stesso senza Demi Moore. È un film sul corpo e il suo corpo è in scena dall’inizio alla fine. Demi Moore è estremamente coraggiosa. Si mette a nudo, letteralmente e metaforicamente. Letteralmente, perché il suo corpo, con le sue imperfezioni e la sua innegabile bellezza nonostante l’età, con i segni del tempo e anche quelli della chirurgia, è il centro e il cuore pulsante del film. Ma Demi Moore si mette a nudo anche metaforicamente. Perché il tempo che passa per un’attrice, il vedersi rimpiazzata in certi ruoli da sex symbol che un tempo erano suoi, il proprio corpo che cambia e, insieme ad esso, il proprio ruolo nel mondo e nello star system, sono cose che l’hanno riguardata e la riguardano. Interpretando Elisabeth Demi Moore avrà sicuramente messo in scena le proprie paure, le proprie debolezze, le proprie ferite. Dall’altro lato dello specchio c’è quello che era Demi Moore 30 anni fa, ovvero Margaret Qualley, attrice in ascesa, coraggiosa e in cerca di continue sfide come lo era lei. Eva contro Eva, ma nella stessa persona. Che è anche un modo per dire che spesso il nostro peggior nemico siamo noi stessi.
di Maurizio Ermisino
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