Cine Mood
Recensione del film Maria
Il nuovo film di Angelina Jolie, Maria, diretto da Pablo Larraín, è un’opera affascinante che esplora la vita e la complessità di Maria Callas, una delle più grandi voci liriche del XX secolo. Jolie offre una performance straordinaria, incarnando con grazia e intensità le sfide personali e professionali di Callas. Larraín utilizza una regia raffinata per tessere una narrazione che alterna momenti di fragilità e di gloria, dipingendo un ritratto intimo e profondamente umano. La colonna sonora e la fotografia contribuiscono a creare un’atmosfera elegante e malinconica, rendendo “Maria” non solo un omaggio alla leggenda del bel canto, ma anche una riflessione sul prezzo dell’arte e della fama.
Angelina Jolie offre una delle sue performance più profonde e sfumate in Maria, dove interpreta la leggendaria Maria Callas. La Jolie cattura l’essenza della diva con una precisione emotiva impressionante, esprimendo non solo la potenza vocale e la presenza scenica di Callas, ma anche la sua vulnerabilità e le sue insicurezze. La sua interpretazione è intrisa di una dignità malinconica, che rende ogni scena intensa e avvincente. La Jolie non si limita a impersonare Callas; la incarna, dando vita a una figura complessa e indimenticabile. La sua capacità di trasmettere emozioni profonde attraverso sguardi e silenzi è straordinaria, e il suo impegno nel ruolo si riflette in ogni dettaglio della sua interpretazione.
Maria non è solo un film biografico; è una celebrazione della vita di una donna straordinaria, resa ancor più potente dalla straordinaria performance di Angelina Jolie. Un must per chi ama il cinema e la grande musica.
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We Live In Time – Tutto il tempo che abbiamo: Florence Pugh e Andrew Garfield nella storia d’amore dell’anno
Published
2 settimane agoon
25 Ottobre 2024We Live In Time significa “viviamo nel tempo”, “noi viviamo attraverso il tempo”. Una frase che potete interpretare in molti modi. Lasciamo a voi farlo, dopo aver visto We Live In Time – Tutto il tempo che abbiamo di John Crowley, con Florence Pugh e Andrew Garfield, presentato alla Festa del Cinema di Roma e in uscita nelle sale dal 28 novembre, distribuito da Lucky Red. Di certo in quel “we live in time” c’è anche una dichiarazione d’intenti che riguarda la forma narrativa del film, una delle cose che lo rende particolare. La storia di Almut e Tobias sarebbe una delle tante commedie romantiche commoventi, e anche divertenti, se non fosse che sul racconto incide un elemento fondamentale: il tempo. Le chiamano dramedy, oggi, ma a noi piace chiamarle tragicommedie, perché dentro portano sorrisi e lacrime, alti e bassi. Sono come la vita.
La storia è semplice, ma è bene non dire molto. Almut (Florence Pugh) è una chef stellata che sta per aprire un suo ristorante. Una notte conosce Tobias (Andrew Garfield), in un modo piuttosto particolare: lo investe con l’auto mentre lui sta attraversando la strada. Era appena uscito dalla sua stanza d’albergo per comprare delle penne: doveva firmare i documenti del divorzio. Ma della storia vi abbiamo già detto troppo.
Sì, perché la scena del loro incontro arriva dopo qualche decina di minuti del film, e potrebbe anche essere una sorpresa. La storia era iniziata infatti in medias res, con Almut e Tobias che sono già innamorati e vivono insieme. We Live In Time farà sempre così: salterà avanti e indietro nel tempo, ci racconterà la vita dei due innamorati così come l’hanno vissuta, solo montando gli avvenimenti in modo non lineare. Quando parliamo dell’elemento tempo, allora, non parliamo dei viaggi nel tempo di tante commedie (Questione di tempo, Ricomincio da capo, Palm Springs), ma solamente di un modo di raccontare la storia.
Le tappe fatidiche di una storia d’amore, allora, si accavallano l’una all’altra, e la cosa indubbiamente dà movimento al film. Primo, perché tiene desta l’attenzione dello spettatore, che non riesce immediatamente a capire a che punto della storia si trova, visto che i cambiamenti fisici dei personaggi a volte ci sono, a volte no, a volte sono impercettibili. Posizionare le carte degli avvenimenti – un po’ come le carte degli imprevisti sulla tabella del Monopoli – permette poi agli autori di svelare i fatti un po’ a loro piacimento, tenendo così sulla corda lo spettatore, e cercando di stupirlo, svelando le cose a poco a poco. E lo spettatore, va detto, sta al gioco volentieri.
Ma è probabile che la scelta non sia solo un fatto di vivacità narrativa. È possibile che John Crowley e Nick Payne, autore dello script, con questa struttura abbiano voluto dirci qualcos’altro. We Live In Time è questione di presente e passato, di fatti e di ricordi. E quando, a un certo punto, ricordiamo quello che è successo, lo ricordiamo a sprazzi, per flash, per scene, non certo con la storia completa, non certo come se leggessimo un libro stampato o vedessimo un film. We Live In Time potrebbe essere questo, lo sguardo verso la vita di chi ricorda alcuni momenti e li rivive così, in modo sparso, seguendo le emozioni. Ma questo correre sfrenato del tempo vuole anche dirci che il tempo che abbiamo non è abbastanza, per cui la vita va vissuta in modo pieno.
We Live In Time in questo modo colpisce di più, perché gioie e dolori, litigate e passione, nuvole e sole si affastellano, si rincorrono, lottano l’una contro l’altra interrompendosi di continuo. In questo modo ogni emozione diventa più forte e contrasta con le altre, come in una doccia scozzese: perché questi momenti, messi uno accanto all’altro, risaltano di più. E noti anche di più la bravura degli attori. Perché vedi diversi lati del loro personaggio, del loro mood, messi improvvisamente uno di fila all’altro.
Gli attori sono sicuramente un punto di forza di un film bellissimo, scritto benissimo partendo proprio dai personaggi. Come spesso accade nei racconti di oggi, c’è un ribaltamento: Tobias, Andrew Garfield, è più romantico, timido, impacciato (è stato Peter Parker, ricordiamolo), ha molte caratteristiche che si è soliti associare ai personaggi femminili. Per contro, la Almut di Florence Pugh è più scontrosa, sboccata, concreta e attiva, meno romantica e più pratica. Sono personaggi di finzione, ma scritti così bene che potrebbero essere veri.
Gli attori si gettano con tutta l’anima in questa storia. Garfield con i suoi modi gentili e la sua bellezza elegante, Florence Pugh con la sua bellezza insolita e sfrontata, e la sua naturale carica erotica. La sensualità, la forza di certe scene di passione è una novità in un genere come la commedia romantica, ed è un altro tocco in più che ci fa entrare ancora di più nella storia. We Live In Time è una delle storie d’amore più belle dell’anno. Ed è uno di quei film che, probabilmente, resteranno nel tempo.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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The Substance: Demi Moore e Margaret Qualley, la bellezza è un (body) horror
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3 settimane agoon
21 Ottobre 2024Hai mai sognato una versione migliore di te? Sarai sempre tu, ma più giovane, più bella, più forte. In una parola: perfetta. Chi non vorrebbe una soluzione del genere? Sì, ma a che prezzo? Il caro, vecchio “patto con il Diavolo” ritorna in The Substance, il film di Coralie Fargeat con Demi Moore e Margaret Qualley che ha scioccato il Festival di Cannes e arriva nelle nostre sale il 30 ottobre, dopo un passaggio alla Festa del Cinema di Roma e alcune anteprime dal 18 ottobre. The Substance è un body horror che riprende la lezione di David Cronenberg e la reinventa in un film pop, patinato, ironico e tagliente, con un finale che porta tutto all’eccesso. È un film per stomaci forti, ma da vedere. Coglie infatti il senso dei tempi che stiamo vivendo.
Elisabeth (Demi Moore) è un’attrice sui sessant’anni con una stella sulla Walk Of Fame (attenzione alla prima e all’ultima scena). Come aveva fatto a suo tempo Jane Fonda è una star del fitness in tv. Ogni mattina fa il suo programma di aerobica, visto da molte persone. Il proprietario dell’emittente, però, decide che Elisabeth è ormai troppo anziana: vuole qualcuno di più giovane e di più sexy. L’attrice, dopo un’incidente, viene ricoverata in ospedale. Prima delle dimissioni, un giovane medico le dà una chiavetta USB. Dentro c’è la risposta ai suoi problemi: la pubblicità una sostanza che, iniettata nel modo giusto, darà vita a una nuova lei. Che nasce da un taglio sulla schiena, per partenogenesi. E così ecco Sue (Margaret Qualley) che diventa la nuova star del programma di fitness, Pump It Up. C’è solo una regola da seguire: le due sono la stessa persona, per cui devono “vivere” una settimana a testa e alternarsi. Altrimenti…
The Substance rilegge in chiave moderna e “medica” il mito del Faust, del fantomatico “patto con il Diavolo” che è sempre stato un classico del racconto sulla natura umana. Ma Sue ed Elisabeth sono anche Dorian Gray e il suo ritratto, solo che il ritratto stavolta è vivo. Sono Eva contro Eva, ma stavolta sono la stessa persona. The Substance è una metafora che coglie molte delle situazioni della nostra epoca. Dall’ossessione per la giovinezza, che da anni ormai si rivela nel continuo ricorso alla chirurgia estetica. Ma anche per l’attenzione spasmodica alla nostra immagine: pensiamo ai social, e agli altri noi stessi che promuoviamo su quegli schermi, più giovani, più belli, più felici e di successo.
Coralie Fargeat per raccontarci tutto questo ci trascina in un vortice di colori e di sensualità. I colori sono quelli accesi e brillanti degli anni Ottanta, gli anni in cui l’attenzione per il corpo e per l’immagine che viviamo oggi è iniziata. Le inquadrature sul corpo femminile, su certi particolari del corpo, sono insistite, decise, volutamente voyeuristiche. Coralie Fargeat riprende i codici di una certa comunicazione visiva sessista e maschilista per veicolare in maniera più efficace e diretta il suo messaggio. Il sessismo è messo chiaramente alla berlina (il personaggio del tycoon, Dennis Quaid, è raffigurato come un essere laido e vorace). E il gioco delle inquadrature è talmente insistito e dichiarato da rendere tutto palesemente ironico e grottesco. Tanto più che a inquadrare i corpi c’è una donna.
Nel mondo di Sue ogni inquadratura è in pratica uno spot: le labbra glossate che incontrano una lattina sono la pubblicità della Coca-Cola, le inquadrature sul fondoschiena sembrano quelle di un marchio di intimo, quelle in cui è in scena con tutine attillate e minimali sembra quella dei costumi da bagno, o un numero di Sports Illustrated.
Coralie Fargeat riprende la lezione dei grandi del cinema per dare vita a un film che comunque è molto originale. Il legame più diretto è quello con il padre del body horror, David Cronenberg, da Videodrome a La mosca fino a eXistenZ. Ma c’è anche il David Lynch di Mulholland Drive, caustico e critico verso il sogno americano di Hollywood, con le sue palme luminose e ingannevoli, e quelle sequenze all’aperto cariche di ansia e attesa. Ma c’è anche Darren Aronofsky, man mano che il film avanza, con quei gesti ossessivo-compulsivi di Requiem For A Dream. Quello che la Fargeat non ha di questi autori è la misura: un regista come David Cronenberg, pur nelle sue mutazioni orrorifiche, ha sempre mantenuto un certo controllo, una sua freddezza quasi geometrica, e non è mai andato oltre il necessario. Caroline Fargeat, nel finale, opta per un tono grottesco e grandguignolesco che nel messaggio del film ci sta. Ma ci era piaciuto però di più il tono dei primi tre quarti del film, più ironico.
The Substance è comunque un gran film, che non sarebbe lo stesso senza Demi Moore. È un film sul corpo e il suo corpo è in scena dall’inizio alla fine. Demi Moore è estremamente coraggiosa. Si mette a nudo, letteralmente e metaforicamente. Letteralmente, perché il suo corpo, con le sue imperfezioni e la sua innegabile bellezza nonostante l’età, con i segni del tempo e anche quelli della chirurgia, è il centro e il cuore pulsante del film. Ma Demi Moore si mette a nudo anche metaforicamente. Perché il tempo che passa per un’attrice, il vedersi rimpiazzata in certi ruoli da sex symbol che un tempo erano suoi, il proprio corpo che cambia e, insieme ad esso, il proprio ruolo nel mondo e nello star system, sono cose che l’hanno riguardata e la riguardano. Interpretando Elisabeth Demi Moore avrà sicuramente messo in scena le proprie paure, le proprie debolezze, le proprie ferite. Dall’altro lato dello specchio c’è quello che era Demi Moore 30 anni fa, ovvero Margaret Qualley, attrice in ascesa, coraggiosa e in cerca di continue sfide come lo era lei. Eva contro Eva, ma nella stessa persona. Che è anche un modo per dire che spesso il nostro peggior nemico siamo noi stessi.
di Maurizio Ermisino
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Joker: Folie À Deux: Non sono Joker e non voglio più esserlo…
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1 mese agoon
2 Ottobre 2024Chi è davvero Joker? Se avete visto il primo film di Todd Phillips saprete che, in questo nuovo racconto che reinventa l’arcinemico di Batman e lo fa vedere sotto una nuova luce, Joker si chiama Arthur Fleck, ha lo sguardo affebbrato e il volto emaciato di Joaquin Phoenix, ed è un uomo solo e disperato. Dopo aver visto il seguito di quel film, Joker: Folie À Deux, presentato al Festival di Venezia e dal 2 ottobre al cinema, ci è venuta in mente un’altra idea. Joker, o Arthur Fleck, in realtà è lo stesso Todd Phillips, il regista e sceneggiatore che con il primo film aveva tentato un azzardo, facendo centro, e qui compie un azzardo ancora maggiore. La storia di Arthur Fleck in questo nuovo film è quella dello stesso Phillips alle prese la creazione del film stesso.
Ma qual è la storia di Joker: Folie À Deux? Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) è recluso nel manicomio di Arkham in attesa di essere processato per i crimini commessi come Joker. Mentre lotta con la sua doppia identità, Arthur non solo scopre il vero amore, ma trova anche la musica che ha sempre avuto dentro di sé. Il sequel di Joker dunque diventa un musical vero e proprio, un musical classico in cui i personaggi passano dalla recitazione al canto e viceversa senza soluzione di continuità.
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Ma fate attenzione. La chiave è tutta in Arthur e in quello che gli altri vogliono da lui. I secondini, gli addetti al carcere, i media, la gente che lo attende fuori e ne ha fatto un simbolo della rivolta contro il sistema: tutti vogliono Joker. Vogliono le sue barzellette, vogliono il volto truccato, la sua risata, la follia. Vogliono che Arthur sia Joker anche l’avvocato e la psicologa, per giocarsi l’infermità mentale al processo. Ma chi sono tutte queste persone? Sono il suo pubblico. Ma è quello che è accaduto a Todd Philips dopo il sorprendente successo del primo film. Tutti – il pubblico, i produttori, gli addetti ai lavori – hanno amato quel film e gli hanno chiesto di rifare Joker. È la stessa cosa: tutti vogliono Joker.
Ma Arthur Fleck di Joker non ne vuole sapere. Vuole essere se stesso, vuole parlare di sé, non vuole raccontare le barzellette. Anche l’amore, per lui, è fuggire dalla solitudine e dalla depressione, da tutto quello che lo aveva portato a uccidere ed essere Joker. E così Todd Phillips dà al pubblico quello che vuole, un nuovo film su Joker. Ma in fondo del pubblico si fa beffe, dandogli qualcosa che non è quello che si aspetta. Come Arthur, Phillips nei panni del Joker non ci si sente più. E allora racconta proprio questo, il voler fuggire dalle etichette, dagli steccati, dagli stereotipi. Arthur Fleck non è Joker, è solo Arthur. E Joker: Folie À Deux non è Joker 2.
E così, nel nuovo film, ogni scelta è quella di un folle. Todd Phillips si muove come il suo protagonista, come una scheggia impazzita, facendo continuamente il contrario di quello che ci si aspetta. Già il primo Joker era un finto cinecomic, un film drammatico calato nel mondo di Taxi Driver e Re per una notta di Scorsese. Qui è ancora altro: un musical ipertrofico con un affastellarsi di numeri canori e danzanti uno dietro l’altro, distribuiti sul racconto senza un’apparente logica, se non quella generica del sogno e dell’evasione. È un film su un villain dei fumetti (anzi due) in cui non ci sono delitti, o quasi, non c’è azione. Non c’è nemmeno Batman, o alcun riferimento a lui, com’era nel primo film. E, in fondo, non c’è nemmeno la Harley Quinn di Lady Gaga, presente nei numeri canori, nelle scene d’amore, ma in fondo mai sviluppata appieno per quello che poteva essere il personaggio.
Todd Philips sceglie di ambientare Joker: Folie À Deux per metà in un manicomio – e l’ambientazione funziona – e per metà in un’aula di tribunale, per il processo, ma senza mai creare la tensione che deve avere un legal thriller. Anche il possibile discorso sui media e l’emulazione di Joker che avviene all’esterno è in fondo solo accennata e sfruttata male. Il finale chiude le porte a ogni possibile Joker 3, e ribadisce quello che andiamo dicendo. Con questo film Todd Philips ha voluto dirci quello che ci vuole far capire Arthur Fleck: non sono Joker. E non voglio più esserlo.
di Maurizio Ermisino
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