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Emily In Paris arriva a Roma, nel nome di Audrey Hepburn

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Emily, il personaggio cult di Lily Collins, protagonista della fortunata serie Netflix Emily in Paris, arriva a Roma. Ad aspettarla c’è un ragazzo italiano, che si chiama Marcello, ed è in sella ad una vespa con cui la porterà in giro per la Capitale, tra rovine, trattorie e i monumenti più importanti. Cominciano così gli episodi di Emily In Paris girati a Roma, gli ultimi due della seconda parte della stagione 4, disponibile su Netflix dal 12 settembre. Emily si trova a Roma attratta dall’amore, ma la vicenda potrebbe diventare anche professionale. Sylvie, il capo dell’agenzia di PR dove lavora, infatti mira a conquistare un importante cliente italiano. E le sue mire in qualche modo si incroceranno con l’interessa sentimentale di Emily. Sono solo due episodi, ma è molto probabile che la stagione 5 – se sarà confermata – potrebbe iniziare proprio da Roma, se non svolgersi completamente nella Capitale.

Vedere una serie che da sempre vive a Parigi ambientata a Roma, da italiani, dà un’altra sensazione. Si può sorridere o magari storcere il naso. Il racconto, e non può essere altrimenti, è pieno di cliché e di luoghi comuni. Aspettatevi allora lunghe carrellate sul cibo, il limoncello, le rovine, la moda, la vespa, i borghi di campagna (che sembrano in Toscana, dove però si ascolta una sorta di pizzica salentina). In Francia non hanno apprezzato come gli americani hanno raffigurato Parigi, in Italia ci sarà chi avrà sicuramente da ridire.

C’è poi un altro gioco, anche questo forse scontato, ma molto piacevole, quello legato al cinema e alle citazioni. Marcello (Eugenio Franceschini), il corteggiatore di Emily, si chiama così in onore di Mastroianni, e ovviamente la porterà davanti alla Fontana di Trevi, come ne La Dolce Vita di Fellini, anche se i due non si tufferanno nelle acque. Più tardi vedremo anche Via Veneto, in bianco e nero, per un altro omaggio a quel film. Quando Marcello porta Emily in giro in vespa per tutta Roma il pensiero corre immediatamente a Gregory Peck e Audrey Hepburn in Vacanze romane. In quelle scene Emily sfoggia un look anni Cinquanta ispirato proprio a quel film.

Emily In Paris è sempre stata una serie ricca di moda e di grandi abiti. I costumi, in qualche modo, hanno sempre voluto sottolineare uno stato d’animo, una situazione, delle svolte narrative. I costumi di Emily in questa stagione sono stati pensati per riflettere la sua crescita e maturità. C’è un tema floreale che è ricorrente nei capi che indossa, e vuole rappresentare il fatto che sia sbocciata rispetto alle stagioni precedenti. Ora si sta facendo strada, sta affermando se stessa e sta diventando molto più forte, con uno stile che reinterpreta i codici della moda parigina.

In Emily In Paris ogni stagione introduce una nuova componente che orienta i costumi del guardaroba di Emily. In questa stagione, si tratta dell’abito a tre pezzi ispirato a Twiggy con scarpe basse e gioielli raffinati. Questo look dimostra la maturità crescente di Emily e il suo sentirsi a proprio agio con l’autorevolezza acquisita sul lavoro. Anche il trucco e le acconciature di Emily subiscono un’evoluzione: in questa stagione si è scelto mostrarla al naturale. Non è sempre truccata alla perfezione, una scelta che riflette il percorso emotivo non sempre facile che Emily sta vivendo.

In questa stagione Emily sfoggia 22 acconciature diverse con tre principali texture, tutte pensate per dimostrare che le sue pettinature stanno diventando più rilassate e meno strutturate nel tempo. Sono presenti anche più cappelli e accessori per capelli rispetto alle stagioni passate. In questa stagione compaiono 2.500 paia di scarpe (ben 150 sono di Louboutin), circa 350 borse e 3.000 gioielli. I capi di abbigliamento totali sono più di mille. In questo senso, e anche per molti aspetti della storia, possiamo dire che Emily In Paris è Il Diavolo veste Prada delle serie tv.

I costumi di questa stagione includono più look vintage e d’archivio, soprattutto per Mindy: indossa infatti un abito Balmain rosa vintage agli Open di Francia e un look Mugler vintage d’archivio viola quando Nico la accompagna nel “Brand Closet” di JVMA. In un episodio, al lancio di un prodotto al Samaritaine, Emily indossa una borsa disegnata da INCXNNUE e realizzata con gli scarti riciclati dell’uva solitamente usata per il vino. Ogni stagione il team di costumisti seleziona capi di marchi famosi accanto a quelli di designer emergenti. Nel corso di questa stagione, il team ha collaborato con lo stilista vietnamita Đỗ Mạnh Cường a cinque look diversi.

E si è parlato anche di moda nella conferenza stampa organizzata a Roma in occasione del lancio della seconda parte della stagione 4. Philippine Leroy-Beaulieu, che nella serie è Sylvie, il capo di Emily, quando si parla di abiti, ricorda una scena particolare della stagione 3, girata sulla Torre Eiffel. “Emily è vestita in piume di struzzo rosa, e Sylvie di di nero. Sembro un uccellaccio malefico”. “Ogni abito ha delle intenzioni dietro, è come un oggetto d’arte” interviene Ashley Park, che interpreta Mindy. “L’abito rosso di Roma è molto particolare, ho detto: lo voglio”. “Il mio abito preferito è sicuramente quello che indosso nel club quando parlo con Emily” aggiunge Camille Razat. “Non è solo l’abito ma tutto il look, il trucco, il rossetto rosso, le atmosfere anni Novanta e le acconciature incredibili”.

Ma è proprio Lily Collins, cioè Emily, a spiegare benissimo come vengono pensati gli abiti nella serie. Sono una sorta di paesaggi-stati d’animo. “Alle fine della seconda stagione, mi Emily si trova su un ponte e deve decidere se tornare in America o restare con Sylvie a Parigi” ricorda l’attrice. “Nei costumi ci sono sempre piccoli particolari. Volevo che il mio avesse diversi strati, che diventasse delle cose diverse a seconda delle situazioni. C’erano dei cavallucci marini: è come se Emily fosse sott’acqua, forse si potrebbe salvare, forse affondare. Questo abito aveva questo significato. E poi cammino sul ponte, ricevo una telefonata, e lo strato esterno, che ricorda una medusa, comincia ad avvolgermi. Ma il cavalluccio marino è un essere che si accoppia per la vita. E quell’abito voleva anche dire: resterò a Parigi per tutta la vita?”. Intanto, in attesa di capire se ci sarà la stagione 5, Emily potrebbe restare a Roma, se non per tutta la vita, almeno un po’ più a lungo.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Dune: Prophecy: Diecimila anni prima di Paul Atreides, su Sky e NOW

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“L’arma più potente dell’umanità è la menzogna”. Mentire, capire chi mente, entrare nella testa delle persone e governarla, predire il futuro. C’è tutto questo al centro di Dune: Prophecy, la nuova serie HBO Original e Sky Exclusive ambientata 10.000 anni prima dell’ascesa di Paul Atreides raccontata nei blockbuster di Denis Villeneuve. La serie, che espande l’universo di Dune creato da Frank Herbert, arriva da da lunedì 18 novembre in esclusiva su Sky e in streaming su NOW.  Dune: Prophecy segue la storia di due sorelle Harkonnen mentre combattono le forze che minacciano il futuro dell’umanità e fondano la mitica setta che diventerà nota come Bene Gesserit. La storia è ispirata al romanzo Sisterhood of Dune, scritto da Brian Herbert e Kevin J. Anderson.

Dune: Prophecy è una serie che vive nel mondo di Dune: come detto siamo 10.000 anni prima della storia che abbiamo visto nel film di David Lynch del 1984 e dei due recenti film di Denis Villeneuve. È però un tipo di racconto molto diverso da quelli che abbiamo visto al cinema. C’è meno azione, meno epica, meno battaglie. E ci sono più complotti, più intrighi di palazzo. E anche più sesso esplicito. Pur restando coerente al mondo di Dune, la nuova serie sempre avvicinarsi al modello de Il Trono di Space, altro grande successo HBO diventato evidentemente un caso su cui modellare altre produzioni.

Nel cast della serie spicca la matura Emily Watson, l’attrice che tanti anni fa ci aveva fatto innamorare con Le onde del destino e con The Boxer, e che oggi ha un ruolo austero e regale, quello della madre superiora della Sorellanza, la setta che darà vita alla Bene Gesserit, le cui esponenti hanno un ruolo chiave nella saga di Dune. Gli occhi blu ghiaccio di Emily Watson sono il faro che guida il personaggio, le sue azioni e il movimento della storia.

A proposito di colori, dimenticate i toni dorati e i rossi della saga cinematografica di Dune. Quello di Dune: Prophecy è un mondo austero, quasi monocromo, che vive di varie sfumature di grigio che sfumano dal bianco al nero. Le figure, scure e austere, di quelle che diventeranno le Bene Gesserit, sono iconiche e immediatamente riconoscibili, e dettano la linea, anche estetica, del racconto. Che vive in un futuro che sa di passato, tecnologico eppure a suo modo ancestrale. A proposito: quello di Dune: Prophecy è un mondo che nasce dopo che gli umani hanno bandito le macchine pensanti, cioè le intelligenze artificiali, dopo averle sconfitte. Anche questo è un motivo di riflessione.

Così come fa riflettere una tendenza in atto nel mercato dell’intrattenimento, quella che punta alla creazione di universi espansi che vivono su media differenti, e con stili differenti. Prima di tutti lo aveva fatto il mondo di Star Wars, prima ancora di finire sotto l’egida Disney, con le serie animate che completavano il mondo dei film, che allora era fermo alle prime due trilogie. Lo ha fatto la Marvel, che con le serie su Disney+ ha arricchito e completato la narrazione del Marvel Cinematic Universe. Lo sta facendo in modo interessante la Warner / HBO: prima con The Penguin, serie tv che vive nel mondo del nuovo Batman di Matt Reeves. Ora con questo Dune: Prophecy che espande l’universo di Dune. La cosa interessante è che la serie non necessariamente ha lo stile del film: The Penguin, più che un cinecomic, è un gangster movie declinato in serie. E Dune: Prophecy, come detto, non è il classico film di fantascienza ma più una sorta di fantasy alla Game Of Thrones. Si tratta di serie da vedere non solo per il piacere di farlo, ma anche per capire dove sta andando la serialità in questa era.

di Maurizio Ermisino

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La legge di Lidia Poët 2: Matilda De Angelis, eroina di ieri e di oggi. Su Netflix

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Il suo nome è Poët, Lidia Poët. Si chiama La legge di Lidia Poët la serie dedicata a questo personaggio che arriva su Netflix dal 30 ottobre 2024, e che è stata presentata ad Alice nella città, la sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma. Ma ci piace introdurla così perché Lidia, la prima donna in Italia ad entrare nell’Ordine degli Avvocati, nella finzione creata da Matteo Rovere, diventa un personaggio da storia crime, un’investigatrice in grado di risolvere gli enigmi più complicati. La seconda stagione de La legge di Lidia Poët è attesissima: la serie, vincitrice con la prima stagione ai Nastri d’Argento Grandi Serie 2023 del premio Miglior Serie ‘Crime’, è anche la serie italiana Netflix più vista nel mondo. È prodotta da Matteo e Groenlandia, società del Gruppo Banijay, e creata da Guido Iuculano e Davide Orsini. Alla regia ci sono lo stesso Rovere, Letizia Lamartire e Pippo Mezzapesa.

A Lidia non è permesso di fare l’avvocato per una legge scritta dagli uomini. Perciò questa volta punta ancora più in alto, vuole cambiare la legge. Mentre continua a collaborare con il fratello Enrico, affrontando nuovi casi e battendosi per i diritti delle donne, vuole convincerlo a candidarsi in Parlamento per far sì che la sua legge trovi finalmente voce. Lidia ha chiuso completamente con l’amore, tanto più con Jacopo, responsabile di aver venduto la villa di famiglia e in rotta di collisione con tutti i Poët. Ma Jacopo e Lidia sono costretti a rivedersi per condividere, loro malgrado, un’indagine segreta che li riguarda da vicino, riscoprendo la complicità e il divertimento che li lega da sempre.

Quella che ha avuto Matteo Rovere è stata un’ottima idea: prendere un personaggio storico e non farne un biopic ma creare un prodotto ben preciso, che rispondesse a un target e un genere molto richiesto. Il modello della serie è Enola Holmes, l’eroina dei film con Millie Bobby Brown, una giovane investigatrice, una giovane donna in un ruolo che è sempre stato appannaggio degli uomini. In quel caso l’idea vincente era stata che Sherlock Holmes avesse una sorella e che fosse anche lei investigatrice. Qui che un personaggio storico, oltre alle capacità giuridiche, potesse avere anche quelle deduttive. E allora ecco il primo avvocato donna in Italia diventare anche una detective. Sia Enola Holmes che Lidia Poët hanno in comune la deduzione, raro dono che nel primo caso verrebbe dai geni familiari, nel secondo da un’evoluzione dei suoi studi di legge. In entrambi i casi, l’idea si è rivelata vincente.

Lidia Poët è un crime, un procedural, e come tale ha una trama verticale, un caso che viene risolto nel corso di un episodio (a tratti con momenti da CSI). Ha anche una trama orizzontale, ed è questa la parte più interessante. La lotta di Lidia per entrare all’Ordine degli Avvocati si evolve, e diventa qualcos’altro: Lidia si batte per diritti più ampi, come il diritto di voto alle donne, il suffragio universale, e la partecipazione delle donne alla vita politica. Come si può immaginare sarà osteggiata, non sarà capita. Ma lei andrà avanti, con la sua ironia, con quel suo sorriso arcaico. A proposito di Storia, gli sceneggiatori si divertono a intrecciarla con le vicende di Lidia: nel terzo episodio, ad esempio, la vediamo confrontarsi con Cesare Lombroso, il famoso antropologo considerato il padre della moderna criminologia.

La forma visiva de La legge di Lidia Poët è un ibrido tra un classico period drama e una confezione pop. Gli sfondi e gli ambienti sono ricostruiti piuttosto fedelmente, e la loro immagine ha spesso la grana delle cartoline d’epoca. Ma davanti a quegli sfondi ci sono le figure in primo piano. I loro abiti sono sì d’epoca, ma hanno un che di pop, soprattutto nei colori. Sono soprattutto i costumi di Lidia, a spiccare, a portare colore in un mondo di uomini più grigio. Guardate i viola, i rossi, i blu dei vestiti che indossa Matilda De Angelis. È un chiaro messaggio: in un mondo uniformato sono le donne, come Lidia, a portare la novità.

I costumi sono chiaramente reinterpretati secondo i gusti di oggi, ed è uno dei piacevoli anacronismi che spezzano il ritmo della serie. Un altro è dato dalle musiche, che sono extradiegetiche, per cui più libere, ma comunque sono contemporanee: dalla musica elettronica di Banks (Beggin For Thread) al punk elettronico di Riival (Misfit, la sigla finale di ogni episodio). È musica che astrae Lidia dal suo tempo e la porta al nostro, rendendola un’eroina contemporanea. E raccontandoci che le lotte di Lidia sono ancora attuali, e da combattere c’è ancora tanto.

Tutto è ammantato da una fotografia incantata, che rende tutto sospeso. I colori di Matilda De Angelis, gli occhi blu e l’incarnato bianco, che a tratti diventa dorato, sono enfatizzati: Lidia sembra uscita da un dipinto d’altri tempi, come da una rivista di moda di oggi. Lidia Poët è ovunque, nel passato e anche nel presente. E anche negli anni Quaranta, perché è da lì, dal cinema della Guerra dei Sessi, in cui i protagonisti si detestavano e si amavano, che viene tutta la linea narrativa con Jacopo, un convincente Eduardo Scarpetta. Tra lui e Matilda De Angelis la chimica è perfetta. E questo è un altro ingrediente di una storia vincente.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Citadel: Diana. Matilda De Angelis è un’eroina da spy-story in un futuro oscuro. Su Prime Video

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C’è un’immagine che campeggia sugli edifici di Manticore, l’agenzia rivale di Citadel, al centro di Citadel: Diana, la nuova serie tv in streaming su Prime Video dal 10 ottobre. È la testa di un uomo che ha due facce, che ricorda molto l’icona di Giano Bifronte. Giano era una divinità romana che era raffigurata con due volti: uno guardava al passato e uno al futuro. È il perfetto simbolo di Citadel: Diana, una storia che è ambientata in un futuro prossimo venturo – un oscuro 2030 – ma allo stesso tempo torna indietro nel passato, per viaggiare dentro i fantasmi e le motivazioni dei personaggi, e legarsi in qualche modo alla serie da cui è partito tutto, la produzione americana Citadel.

Milano, 2030: otto anni prima l’agenzia indipendente di spionaggio Citadel è stata distrutta da una potente organizzazione rivale, Manticore. Da allora, Diana Cavalieri (Matilda De Angelis), spia di Citadel sotto copertura, è rimasta sola, intrappolata tra le linee nemiche come infiltrata in Manticore. Quando finalmente le si presenta l’occasione di uscirne e sparire per sempre, l’unico modo per farlo è fidarsi del più inaspettato degli alleati, Edo Zani (Lorenzo Cervasio), l’erede di Manticore Italia e figlio del capo dell’organizzazione, Ettore Zani (Maurizio Lombardi), in lotta per la supremazia contro le altre famiglie europee.

Citadel: Diana è una serie vincente già solo per l’idea che è alla base, un caso di studio. Nasce infatti da una serie principale, Citadel, prodotta e girata in America, e nata per essere a sua volta la madre di altre storie, da girare in altri Paesi (a novembre arriverà Citadel: Honey Bunny, girata in India). Citadel così ha dato vita a nuove serie che non sono dei sequel e non possono essere tecnicamente definiti degli spin-off. Sono storie che vivono nel mondo di Citadel, ma a loro volta vivono di vita propria, respirano la Storia, il clima, le influenze dei Paesi in cui sono nate. Nell’adattamento italiano, senza che diventino preponderanti rispetto alla vicenda principale, appaiono le mafie, le stragi di Stato irrisolte, una deriva verso l’autoritarismo che a volte nella Storia il nostro Paese ha preso.

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C’è dunque l’Italia, con la sua Storia, le sue peculiarità, la sua personalità in questa serie originale che vive nel mondo di Citadel, ma si discosta dalla serie madre per trovare una sua via. È un’Italia che non è mai scontata, non è mai una cartolina, mai un cliché. Al centro c’è Milano, una città tutto sommato poco frequentata dal cinema nelle sue potenzialità, una Milano città europea, internazionale, enigmatica. C’è la sua architettura razionalista, e un mood retrofuturistico che connota tutta la serie, e ci fa vedere la città come non l’abbiamo mai vista. C’è anche la Sicilia, e anche questa è completamente inedita e lontana dagli stereotipi: è l’occasione per girare una scena spettacolare ambientata nel Cretto di Gibellina in Sicilia, una gigantesca opera d’arte ambientale di Alberto Burri.

Il ruolo delle location è centrale in Citadel: Diana. Non sono mai semplici sfondi, ambientazioni, ma hanno un ruolo ben preciso nella serie. Sono spesso luoghi molto grandi, imponenti, minacciosi – che i totali del regista Arnaldo Catinari valorizzano appieno – che fanno sentire piccolo l’uomo che sta al centro, e rendono l’idea del suo ruolo in questa storia: quello di pedina in grado di essere spostata a piacimento lungo la scacchiera della vicenda. È un uomo piccolo, troppo piccolo di fronte al destino che lo attende.

Come nella scienza, in Citadel: Diana si va dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo. Ci sono i totali e i campi lunghi, ma anche i primi piani. Tanti sono sul volto di Diana, interpretata da una convincente Matilda De Angelis, pronti a coglierne la bellezza, l’aura di star ormai internazionale. E a scrutare l’enigma di un volto che, per doveri di missione, deve rimanere freddo e imperscrutabile, ma tale non è. Matilda De Angelis è in scena con un inedito caschetto a due lunghezze: i capelli sono più corti da un lato e più lunghi dall’altro, simbolo della Diana del passato che incontra la Diana del presente e del futuro. Sì, ancora una volta ecco Giano Bifronte.

Ma Giano Bifronte è il simbolo di Citadel non solo per il rapporto tra passato e futuro, ma anche perché, come vuole il mondo creato dai Fratelli Russo, ognuno ha due facce, due identità, due vite. Ognuno fa un doppio, o forse triplo, gioco. Non c’è alcuna certezza, tutto è il contrario di tutto. Citadel: Diana, prodotta da Cattleya, è riuscita a creare un mondo (con la scrittura di Alessandro Fabbri, head writer, e Ilaria Bernardini, Gianluca Bernardini, Laura Colella e Giordana Mari) dove abbiamo un continuo senso di accerchiamento, di terra che frana sotto i nostri piedi, di enorme insicurezza. La serie italiana è probabilmente più riuscita della “madre” americana. Merito della qualità produttiva, per la potenza di certe sequenze e inquadrature, di attori come Maurizio Lombardi, Filippo Nigro e la rivelazione Lorenzo Cervasio.

Ma è merito soprattutto della scrittura, e di quelle backstory che riescono a svelarci le motivazioni, il motore che muove le azioni dei personaggi. La forza di Citadel: Diana è proprio questa. Insieme al fatto di aver intercettato un senso di disagio per il mondo che abbiamo attorno, con guerre che accadono molto vicino a noi e che ci fanno temere anche per le nostre vite. Quel Duomo di Milano che crolla sotto un attentato, lasciando solo rovine e macerie, è un’immagine di quelle che restano dentro e che fanno stare male. Il senso di quell’immagine ce lo ha spiegato l’head writer Alessandro Fabbri. “Andava a dirci in modo preoccupante, inquietante: anche noi siamo esposti, non viviamo in un posto sicuro; ecco cosa potrebbe accadere qui, nella nostra terra, in un futuro non troppo lontano, se qualcosa dovesse andare storto”.

di Maurizio Ermisino

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