10·Corso·Como presenta Gut, la più ampia mostra personale sino a ora dedicata al lavoro dell’artista statunitense Talia Chetrit.
Talia Chetrit fa un uso schietto eppure ricco di sfumature dell’obiettivo fotografico, attingendo alla storia della fotografia mentre solleva interrogativi intorno ai temi della rappresentazione del sé, della sessualità e delle dinamiche di potere. Le sue immagini – tanto poetiche e provocatorie quanto attentamente elaborate – combinano intensità emotiva e qualità compositive: sono un esercizio critico su cosa significhi guardare un’immagine e su cosa si provi nel mettersi in posa per l’obiettivo, un’indagine sulle implicazioni formali del gesto di inquadrare e sulle dinamiche psicologiche che emergono quando diventiamo il soggetto dell’inquadratura.
Autoritratti, scene familiari, nature morte e fotografia di strada; nessun soggetto è escluso dalla pratica artistica di Chetrit, che si interroga sull’attuale validità dei “generi fotografici”, infondendo nelle immagini il candore della fragilità e il senso della provocazione. Il titolo della mostra suggerisce la molteplicità di significati che la parola “gut” evoca in inglese: oltre al suo significato letterale, la parola incarna metaforicamente idee di coraggio o di sfrontatezza, oppure indica una reazione emotiva viscerale o un istinto. In questo senso il titolo riflette la molteplicità di temi formali ed esistenziali che le opere contengono.
In quest’occasione, l’artista riunisce opere realizzate nell’arco di trent’anni, dal 1994 al 2023, ponendo in dialogo momenti differenti della sua ricerca artistica e della sua vita. Scatti recenti si affiancano a fotografie realizzate a metà degli anni Novanta – come Logo (1996/2017) e Face #1 (1994/2017) – in cui Chetrit, allora adolescente, ritrae le sue amiche d’infanzia. Qui i soggetti mostrano una profonda consapevolezza di essere osservati dall’obiettivo e, nonostante l’età, instaurano con la macchina fotografica un dialogo chiaro e intenzionale, con gesti e posture presi in prestito dalle riviste di moda, dal cinema e dalla televisione. Un’altra opera degli esordi, Murder Picture #3 (1997/2017), raffigura un’amica dell’artista mentre posa come vittima di un omicidio in quello che sembra essere un vagone della metropolitana. C’è dell’audacia e della tenerezza in quest’immagine, che ci mostra le sperimentazioni giovanili di una ragazza appena quindicenne ma in grado di citare un’opera seminale come gli Untitled Film Stills (1977-1980) di Cindy Sherman mentre esplora la fascinazione della nostra società per la violenza e il voyeurismo insito nelle fotografie di cronaca nera.
Ricontestualizzare foto scattate quasi trent’anni fa – quando la fotografia era poco più che una passione amatoriale per l’artista – corrisponde al tentativo di “appiattire il tempo.” Se consideriamo il tempo come il materiale per eccellenza della fotografia, questo gesto assume un doppio significato: da una parte sottolinea come, in quanto esseri umani, noi esistiamo nel tempo; dall’altra evidenzia come manifestiamo i continui mutamenti delle nostre sensibilità attraverso forme storicamente determinate, come la moda.
Il precoce interesse di Chetrit per la rappresentazione e l’auto-espressione dei soggetti femminili prosegue e si consolida in opere successive come gli autoritratti Untitled (Body) del 2018 e Self-portrait (Mesh Layer) del 2019. Un misto di messa in scena, esibizionismo e auto-parodia contraddistingue questi scatti dalla natura inafferrabile, in cui l’artista espone il proprio corpo seminudo. Puntando l’obiettivo su di sé, Chetrit appare nelle sembianze di un mimo improvvisato o mentre posa come musa di se stessa. In queste opere, sospese tra intimità ed eccesso, coesistono auto-riflessione e commento sociale: più l’artista mostra il proprio corpo più acutamente sfida le forme tradizionali di rappresentazione della femminilità, incoraggiando chi guarda a mettere in discussione la propria posizione e i preconcetti su come le donne esistono all’interno della produzione contemporanea di immagini.
Le relazioni famigliari hanno un ruolo centrale nella mostra, che include ritratti di ciascun membro della famiglia dell’artista: la madre – in opere come Mom (Ball) del 2022 e Ash (2021) -, il padre in Dad/Mesh (2021), il compagno e il figlio, che vediamo insieme in Untitled (Family #2) del 2021 o ritratti individualmente, come in Cat Boot Baby (2021) e Back (2016). Con un’ironia a tratti corrosiva, Chetrit smantella gli stereotipi famigliari, facendone emergere contraddizioni e incongruenze, usando il linguaggio della moda per stimolare una riflessione su come leggiamo le immagini. Sebbene Chetrit abbia realizzato campagne fotografiche per marchi di moda come Celine, Phoebe Philo e Acne Studios, nei suoi scatti artistici la moda emerga in filigrana, come uno degli elementi della sua ricerca sulle convenzioni sociali.
Le immagini di Talia Chetrit occupano uno spazio e un tempo difficili da definire: possiedono l’immediatezza di un’istantanea e la qualità un po’ sbiadita di un momento di vita fissato sulla pellicola, eppure di fronte ad esse abbiamo la sensazione di qualcosa che è stato attentamente pianificato, di una tensione verso gli aspetti compositivi e narrativi delle immagini, che l’artista esalta attraverso una precisa coreografia di pose e accessori.
Quella di Chetrit è un’arte della vicinanza estrema e di un’altrettanto radicale distanza. Accanto a fotografie che sono tanto intime quanto provocatorie troviamo anche vedute urbane realizzate con l’uso di un obiettivo telescopico: qui i soggetti, ritratti da lontano, sono anonimi e sfocati mentre l’artista – contrariamente a quanto accade con il resto della sua opera – non mostra alcuna connessione emotiva con lo svolgersi degli eventi, che osserva a distanza.
All’interno di questa gamma di sentimenti che spaziano dall’intimità al distacco, troviamo infine le nature morte, composizioni in cui gli oggetti sono investiti di una sorta di tensione psicologica. Il drammatico gioco di luci e ombre in un’opera come Angels (1995-2022) insinua un’idea antiquata e cinematografica di amore, attrazione e conflitto, come pure Rubber Nipple (2021) evoca il tema della genitorialità al di là di certe semplificazioni: in questa immagine la tettarella, cui il titolo fa riferimento, diventa una presenza misteriosa, un oggetto luminescente immerso nel buio. L’atmosfera malinconica di Studio Chair (2018), infine, suggerisce il legame tra seduzione e assenza.
Il lavoro di Talia Chetrit è ricco di contraddizioni che abbraccia e esplora, giocando con la finzione e, a volte, apparendo ingannevolmente diaristico. Ciascuna di queste opere ci invita a riflettere sulla natura sfaccettata delle relazioni umane e sui modi in cui i rapporti sono plasmati, omologati e perpetuati attraverso il dominio della rappresentazione.