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Loro 1. La forza di gravita’ che ci attira verso il potere

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Inizia con una pecora in primo piano, Loro 1, prima parte del film di Paolo Sorrentino su Silvio Berlusconi, nelle sale dal 24 aprile (la seconda parte arriverà il 10 maggio). Siamo nella sua famosa villa in Sardegna. La pecora entra in casa: su una grande tv è in onda un quiz di Mike Bongiorno (interpretato da Ugo Pagliai) e un climatizzatore, tarato su 0 gradi, parte, e finisce per lasciare stecchita la pecora. Con uno stacco, siamo in Puglia, in mare, e Sergio Morra (Riccardo Scamarcio), su una barca con un politico, sta aspettando una ragazza che dovrà fare un favore a quest’ultimo, in cambio di un appalto. La prima parte del film di Sorrentino è a sua volta divisa in due parti: la Sardegna e l’Italia, Lui e Loro, l’obiettivo da raggiungere e la Corte che aspira ad essere ammessa al Re.

Ritorna così, in Loro 1, lo schema de Il Divo: il leader come un sole, centrale e immobile, e i personaggi che vi ruotano intorno come i pianeti del sistema solare. Solo che, se ne Il Divo il sistema era costituito, e l’attenzione era tutta sul ruotare e ricevere la luce dal sole, Loro 1 ci racconta la forza di gravità, cioè l’attrazione, irresistibile, che tutta una serie di personaggi hanno per Lui. Che viene sempre nominato così, “salvato” in questo modo anche sulle memorie dei cellulari. E, per un’ora abbondante di film non si vede, facendo crescere spasmodicamente l’attesa per la sua discesa in campo… pardon, ingresso in scena. Intanto c’è un primo film velocissimo, montato meravigliosamente a ritmo di rock, funk e techno, caleidoscopico e stordente. È Scorsese, è Harmony Korine, ma è soprattutto Sorrentino al suo meglio: le scene delle feste sono un suo marchio di fabbrica, è cinema conosciuto ma sempre nuovo. Il protagonista assoluto di questa prima parte è Riccardo Scamarcio, sfrenato, amorale, nel miglior ruolo della sua carriera. Accanto a lui c’è Euridice Axen (la moglie Tamara), altra rivelazione del film, e una bellissima Kasia Smutniak, nel ruolo di Kira, una donna irraggiungibile. Si parla di Lui, e poi si parla di Dio, altro personaggio irraggiungibile (“perché lo chiamano Dio? Perché sa perdonare”), tra scene cult come un favore sessuale di 4 secondi a un uomo dal volto coperto sotto una luce blu, o come un party sfrenato a base di MDMA, una droga i cui effetti ci vengono enunciati in un linguaggio scientifico.

E poi arriva Lui. Il Berlusconi di Tony Servillo entra in scena a sorpresa, travestito, e il film prende subito un’altra piega. Il Silvio di Sorrentino diventa un altro uomo solo, che si muove in spazi vuoti, come il Titta de Le conseguenze dell’amore. Un uomo che ha un fuori – un’immagine riconoscibilissima e iconica, accurata negli abiti, al limite del caricaturale nel trucco – e che ha un dentro – un’anima, dei sentimenti – che conosciamo meno. Sorrentino, lo scrive nelle note di regia, vuole provare a scavare, a tentoni, nella coscienza dell’uomo. Anche la seconda parte del film è puro Sorrentino. È un film grottesco, malin-comico, tragicomico. Tony Servillo la vive con un trucco molto evidente, e con una parlata che però non è mai caricaturale, figlia del suo lavoro a teatro sulla Trilogia della Villeggiatura di Goldoni e un po’, forse, di Guido Nicheli. Il suo Berlusconi è un uomo annoiato, che cerca di conquistare la sua Veronica, disamorata e bisognosa di cultura, che legge Saramago (“con tutte quelle tv, perché non hai mai fatto un programma culturale? “l’ho fatto, avevamo Mike”), ed è più vicina al calciatore che lui vuole ingaggiare per il Milan che al marito. Tra battute vere, o verosimili, alcune fulminanti (“una verità è frutto del tono e della convinzione con cui la afffermiamo”), il Berlusconi di Loro è ancora una volta il brutto che diventa bello, altro tipico tratto della poetica di Sorrentino: bello perché riesce a farcelo trovare interessante.

Lui e Loro, in questa prima parte, restano due mondi separati. Destinati a incontrarsi, complice la vicinanza di due residenze estive in Sardegna. Immaginare come è facile, e anche quello che ne scaturirà, ma lo capiremo compiutamente in Loro 2. Immaginare è facile, da un lato, impossibile dall’altro. Paolo Sorrentino è infatti, allo stesso tempo, un autore assolutamente prevedibile e incredibilmente imprevedibile. Perché sì, il suo cinema è quello, estetico, visionario, e continua su quei binari. Ma, d’altra parte, Sorrentino vede cose che noi non vediamo, immagina cose che non immaginiamo, e ogni suo racconto è qualcosa di completamente nuovo. Loro 1, ad esempio, è costellato di animali (pecore, rinoceronti, topi), che sembrano quasi osservare dall’esterno un genere umano evolutosi in modo impazzito e stupefacente (in tutti i sensi). Se il topo è un deus ex machina che ci spinge verso la scena più significativa, a livello metaforico, dell’Italia attuale (una pioggia di spazzatura sui resti dell’Antica Roma), gli altri popolano il film in modo surreale e spiazzante. La fauna umana che popola il film è fatta di personaggi di fantasia, ma ispirati al mondo reale: il Sergio Morra di Scamarcio è ispirato a Tarantini, il Riccardo Pasta di Ricky Memphis è un simil Ricucci, mentre il meraviglioso Santino Recchia di Fabrizio Bentivoglio potrebbe essere un po’ Bondi, un po’ Urbani, un tocco di Formigoni. L’unica che ha nome e cognome è Noemi Letizia.

Loro non racconta solo un uomo, ma una cultura, un costume, un modo di pensare. Un cambiamento culturale profondo, frutto di un ventennio di egemonia iniziato, prima che con la discesa in campo, con le tv commerciali e il Drive In, e che ha trasformato in maniera profonda una parte di questo Paese. È un cambiamento da cui, forse, non si tornerà più indietro. Loro, scrive Sorrentino nelle note di regia, racconta questi italiani, allo stesso tempo “prevedibili ma indecifrabili”, italiani “nuovi e antichi al contempo”. “Anime di un purgatorio immaginario e moderno che stabiliscono di provare a ruotare intorno a una sorta di paradiso in carne ed ossa: un uomo di nome Silvio Berlusconi”.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Joker: Folie À Deux: Non sono Joker e non voglio più esserlo…

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Chi è davvero Joker? Se avete visto il primo film di Todd Phillips saprete che, in questo nuovo racconto che reinventa l’arcinemico di Batman e lo fa vedere sotto una nuova luce, Joker si chiama Arthur Fleck, ha lo sguardo affebbrato e il volto emaciato di Joaquin Phoenix, ed è un uomo solo e disperato. Dopo aver visto il seguito di quel film, Joker: Folie À Deux, presentato al Festival di Venezia e dal 2 ottobre al cinema, ci è venuta in mente un’altra idea. Joker, o Arthur Fleck, in realtà è lo stesso Todd Phillips, il regista e sceneggiatore che con il primo film aveva tentato un azzardo, facendo centro, e qui compie un azzardo ancora maggiore. La storia di Arthur Fleck in questo nuovo film è quella dello stesso Phillips alle prese la creazione del film stesso.

Ma qual è la storia di Joker: Folie À Deux? Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) è recluso nel manicomio di Arkham in attesa di essere processato per i crimini commessi come Joker. Mentre lotta con la sua doppia identità, Arthur non solo scopre il vero amore, ma trova anche la musica che ha sempre avuto dentro di sé. Il sequel di Joker dunque diventa un musical vero e proprio, un musical classico in cui i personaggi passano dalla recitazione al canto e viceversa senza soluzione di continuità.

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Ma fate attenzione. La chiave è tutta in Arthur e in quello che gli altri vogliono da lui. I secondini, gli addetti al carcere, i media, la gente che lo attende fuori e ne ha fatto un simbolo della rivolta contro il sistema: tutti vogliono Joker. Vogliono le sue barzellette, vogliono il volto truccato, la sua risata, la follia. Vogliono che Arthur sia Joker anche l’avvocato e la psicologa, per giocarsi l’infermità mentale al processo. Ma chi sono tutte queste persone? Sono il suo pubblico. Ma è quello che è accaduto a Todd Philips dopo il sorprendente successo del primo film. Tutti – il pubblico, i produttori, gli addetti ai lavori – hanno amato quel film e gli hanno chiesto di rifare Joker. È la stessa cosa: tutti vogliono Joker.

Ma Arthur Fleck di Joker non ne vuole sapere. Vuole essere se stesso, vuole parlare di sé, non vuole raccontare le barzellette. Anche l’amore, per lui, è fuggire dalla solitudine e dalla depressione, da tutto quello che lo aveva portato a uccidere ed essere Joker. E così Todd Phillips dà al pubblico quello che vuole, un nuovo film su Joker. Ma in fondo del pubblico si fa beffe, dandogli qualcosa che non è quello che si aspetta. Come Arthur, Phillips nei panni del Joker non ci si sente più. E allora racconta proprio questo, il voler fuggire dalle etichette, dagli steccati, dagli stereotipi. Arthur Fleck non è Joker, è solo Arthur.  E Joker: Folie À Deux non è Joker 2.

E così, nel nuovo film, ogni scelta è quella di un folle. Todd Phillips si muove come il suo protagonista, come una scheggia impazzita, facendo continuamente il contrario di quello che ci si aspetta. Già il primo Joker era un finto cinecomic, un film drammatico calato nel mondo di Taxi Driver e Re per una notta di Scorsese. Qui è ancora altro: un musical ipertrofico con un affastellarsi di numeri canori e danzanti uno dietro l’altro, distribuiti sul racconto senza un’apparente logica, se non quella generica del sogno e dell’evasione. È un film su un villain dei fumetti (anzi due) in cui non ci sono delitti, o quasi, non c’è azione. Non c’è nemmeno Batman, o alcun riferimento a lui, com’era nel primo film. E, in fondo, non c’è nemmeno la Harley Quinn di Lady Gaga, presente nei numeri canori, nelle scene d’amore, ma in fondo mai sviluppata appieno per quello che poteva essere il personaggio.

Todd Philips sceglie di ambientare Joker: Folie À Deux per metà in un manicomio – e l’ambientazione funziona – e per metà in un’aula di tribunale, per il processo, ma senza mai creare la tensione che deve avere un legal thriller. Anche il possibile discorso sui media e l’emulazione di Joker che avviene all’esterno è in fondo solo accennata e sfruttata male. Il finale chiude le porte a ogni possibile Joker 3, e ribadisce quello che andiamo dicendo. Con questo film Todd Philips ha voluto dirci quello che ci vuole far capire Arthur Fleck: non sono Joker. E non voglio più esserlo.

di Maurizio Ermisino

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Torna l’appuntamento con il Festival Cinematografico Internazionale di Sitges

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L’industria cinematografica sta cambiando. Ed anche i Festival. Anche quelli di settore. Sta per prendere il via la 57a edizione di “SITGES – Festival Internazionale del Cinema Fantastico della Catalogna” del fantasy e dell’horror che continua a scommettere sugli eventi extra offrendo sempre più iniziative rivolte ai professionisti del settore cinematografico a livello internazionale con conferenze, incontri, tavole rotonde e workshop al fine di creare sempre più “catene di valore” in questo genere di settore cinematografico. Il festival è previsto alle porte di Barcellona in Spagna,a Sitges appunto, dal 3 al 13 ottobre 2024.  Da segnalare sicuramente “horror girls”, ovvero il secondo incontro di professioniste europee specializzate ne genere di sesso femminile al fine di valorizzarne il talento in un contesto di pari opportunità e riflessione sull’horror contemporaneo.  Tra i nomi Priscilla Smith, Manon Barat e Antonia Nava , Nahikari Ipiña, Nuria Valls e Enrique López Lavigne , Lauren LaVera, Desirée de Fes e Iván Fund pltre che attrici e registe importanti del settore. Tra le tavole rotone si segnala quelle di studio sulla figura della donna in questo settore con Mònica Garcia e Massagué, Heidi Honeycutt e Victoria McCollum. Il futuro del genere fantastico ed horror si tinge quindi di rosa? Chissà. Sicuramente ampio spazio il festival lo darà all’uso della tecnologia anche con l’uso dei videogiochi nel mondo di questo genere di cinema. Il cinema oltre il cinema, insomma, sempre più lontano da un unico concetto di “effetti speciali”. Invariate le sezioni ovvero :Fantastic in Competition ufficiale, Sezione ufficiale della collezione Sitges,Sessioni speciali,Panorama,Orbita,Nuove visioni, Anima’t,Sette possibilità,X-Treme a mezzanotte,Brigadoon (sezione competitiva),Sitges Classics (retrospettive e omaggi),Documenta di Sitges,Sitges Coming Soon (teaser e trailer delle prossime uscite iberoamericane),Sitges Family (sezione non competitiva).
Il Festival di Sitges resta insomma a livello internazionale la migliore vetrina europea per questo cinema di genere dove i criteri di selezione restano quelli di creatività e tendenza horror e fantasy.

di Cristina T. Chiochia

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Love Lies Bleeding: amore e morte in un’America tossica. Con Kristen Stewart

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“Il corpo ottiene ciò a cui la mente crede”. “Il destino è una decisione”. “Solo i perdenti mollano”. Che cosa sono queste frasi? Sono delle scritte affisse in una sordida palestra in una cittadina del New Mexico, nel profondo interno degli Stati Uniti alla fine degli anni Ottanta, dove inizia Love Lies Bleeding di Rose Glass, con Kristen Stewart. Sono scritte motivazionali che allora potevi trovare in una palestra. Ma sembrano cogliere, in parte, quello che troveremo nel film. Una storia di perdenti, un destino che sembra segnato, o che forse si può riscrivere. Una riflessione sul corpo e una storia costruita accanto a corpi che cambiano, si incontrano e si scontrano, corpi che muoiono, scompaiono e ritornano. Presentato al Sundance Film Festival e poi Festival di Berlino, Love Lies Bleeding arriva ora in Italia, al cinema dal 12 settembre, distribuito da Lucky Red.

Lou (Kristen Stewart), una ragazza scontrosa e solitaria, trasandata e delusa dalla vita, gestisce la palestra del padre (Ed Harris) quando nella sua vita arriva Jackie (Katie O’Brien), un’ambiziosa culturista diretta a Las Vegas per inseguire il suo sogno. Le due si innamorano perdutamente, ma il loro amore le trascina in un vortice di violenza, facendole precipitare nella rete criminale della famiglia di Lou.

È un film di corpi, dicevamo, Love Lies Bleeding. Tutto ruota intorno ai due corpi opposti, e quindi destinati ad attrarsi, di Lou e Katie. Lou è Kristen Stewart, l’ex Bella di Twilight, l’ex fidanzatina d’America e modello di migliaia di adolescenti. La carriera di Kristen è una continua sfida. Qui è in scena con un’aria trasandata, i capelli unti acconciati in una sorta di mullet anni Ottanta, le occhiaie a cerchiare gli occhi nocciola su un viso pallido e smunto. Le mani sono sempre quelle di una bambina. E il suo corpo, celato da abiti maschili e oversize, è quello di un’adolescente, sottile e acerbo.

Jackie è l’esordiente Katie O’Brien, riccioli neri, mascella volitiva e occhi verdi allungati e taglienti. Il fisico tonico, possente, da culturista la fa sembrare una gigante, una wonder woman di periferia, la fa spiccare sulle donne e gli uomini mediocri di quella schifosa cittadina del New Mexico. I muscoli guizzanti, così tesi che ne sentiamo il suono, non le fanno perdere però femminilità e sex appeal. Jackie attraversa il film come oggetto del desiderio. Accanto a loro, Ed Harris, calvo e con i capelli lunghi da sembrare Zio Tibia, fornisce un’ulteriore variazione alla sua carriera da villain, Jena Malone è irriconoscibile nel ruolo della sorella di Lou, vittima di abusi, e Dave Franco il marito tossico. Ma attenzione anche ad Anna Baryshnikov, nel ruolo di Daisy. Che sembra un ruolo minore, ma…

Siamo negli anni Ottanta, per la precisione nel 1989, visto che sentiamo alla tv la notizia della caduta del muro di Berlino. Ma questo è il lato meno scintillante degli Eighties, è quello più marrone, o più grigio. Non siamo nel cuore degli avvenimenti, ma nella periferia. È qui che vivono gli emarginati, i reietti, quelli che, per la loro provenienza, cioè per la loro famiglia, sembrano avere il destino segnato, invischiati sempre più dentro, come se fossero nelle sabbie mobili: più cercano di uscire più ci precipitano. Love Lies Bleeding è una sorta di Thelma & Louise unito a Requiem For A Dream, ambientato nel mondo sordido di Tonya. Del film di Ridley Scott ha la forza dell’unione di due donne sole contro tutti. Del film di Aronofsky ha quel suono dei sogni che vanno in frantumi. Ma forse ha un po’ più di speranza.

Love Lies Bleeding è un film di corpi, di muscoli, di sudore di sangue. E anche di armi, di steroidi e di automobili. Un film di uomini tossici e di sostanza tossiche. E di un amore puro che rischia di avvelenarsi in tutto questo. Duro, coraggioso, con scene di sesso e di violenza, è una storia d’amore destinata a virare nel nero del crime, del thriller e del noir. Quelle scene più visionarie e immaginifiche, che arrivano alla fine del film, piuttosto bruscamente, senza cioè che il terreno sia stato preparato, dimostrano che Rose Glass non è una regista banale ed è in grado di spiazzare e volare con l’immaginazione. Stridono però un po’ con il tono più realistico del film, che aveva saputo creare un’atmosfera tesa e disperata e a tirarci dentro la storia, e in qualche modo spezza l’incantesimo della nostra empatia con i personaggi. tutto questo però non toglie a Love Lies Bleeding quel suo essere un film intenso e potente. “Il destino è una decisione”. E le nostre due eroine proveranno a cambiarlo.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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